Va bene anche scritto Ziazüje o ziazïje perché omofoni).
Si individuavano con questo termine, un po’ dispregiativo, quei fedeli che passavano per Manfredonia diretti al Santuario di San Michele di Monte Sant’Angelo.
La consuetudine del pellegrinaggio risale al Medioevo. Dopo l’anno 1000 erano quattro i luoghi sacri per eccellenza ove si riversavano i pellegrini: Gerusalemme, Roma, Santiago di Compostela e Monte Sant’Angelo.
Si muovevano in quell’epoca principalmente a piedi. Nel Novecento invece giungevano con carretti trainati da cavalli e coperti da teloni.
Anche nel Tavoliere transitavano questi pellegrini. Ho letto sul vocabolario di Cerignola: «Ziazije s.f. pl. Donne che insieme ad altri pellegrini, a piedi e in fila indiana si recavano dai comuni del barese al Santuario dell’Incoronata, attraversando Cerignola.»
Anche a Bari usano questo termine per designare i pellegrini diretti alla Basilica di San Nicola.
Il mio amico Matteo Borgia asserisce:
«Un termine dall’etimo incerto, di origine onomatopeica. Secondo alcuni linguisti, deriverebbe da una litania (cantata dai pellegrini), il cui suono, giungendo da lontano, ricordava vagamente un ronzio.
Una fonte da me sentita anni fa, a Bari, mi diceva che erano così chiamati perché i pellegrini stranieri, provenienti dall’Oriente, quando venivano interpellati dalla gente locale, non conoscendo la lingua, rispondevano meccanicamente con una sorta di “Sia! Sia!”, forse forma contratta di “così sia!”.
Altri ancora attribuiscono il termine al fatto che i pellegrini erano così sporchi e poveri, che il popolino in maniera un po’ razzista diceva che gli ronzavano intorno gli insetti.»
Io li ricordo bene, con i loro cavalli adornati di piume di galletto colorate di giallo, violetto, blu e rosso. La tappa nella nostra città era obbligatoria prima dell’ultimo tratto per Monte.
Arrivavano a carovane, come i pionieri del Far West e pernottavano nelle taverne, ove trovavano rifugio uomini e cavalli.
‘I vì, stanne arrevanne i zja-züje = Eccoli, stanno arrivando i forestieri.
Fino agli inizi degli anni anni ’60 si muovevano ancora con i carretti. Poi sono arrivati i giovani con le biciclette da corsa, anch’esse con le piume colorate fissate alla forcella, al manubrio, allo zaino, al cappellino da ciclista.
Con l’espandersi dei mezzi di trasporto a motore non li abbiamo più visti, perché in un solo giorno riescono a venire anche dal Salento e a ritornarsene ai loro paesini di tutta la bassa Puglia.
I più tradizionalisti hanno continuato ad apporre le penne colorate anche sulle automobili, almeno fino agli anni ’60.
Si. Si videro fino ai primi del ’60 anche con gli autobus (i pustéle) con i ciuffi di penne e piume colorate. Pranzavano in mezzo alla villetta tra corso Roma e via San Lorenzo con il “capretto al sale” che avevano fatto cuocere dal forno di “Grazzjio u furnére” (traversa Castello ora Via del Rivellino)
Quella “villetta”, nel quadrilatero Corso Roma-Via Magazzini-Via San Lorenzo-Via del Rivellino è ora intitolato “Largo Eroine sconosciute”
Altri due personaggi dell’epoca furono: Seppína Trujéne (fruttivendola) e Mattuccélla D’Ascanio (bibite e gelati). Gestivano i propri chioschi (e ci impedivano di giocare con il pallone). Ma, all’occorrenza, allestivano i tavoli per il consumo del pasto dei zja zúje.
Nel 1981 andai a lavorare in Irpinia a costruire le case prefabbricate per le popolazioni terremotate del 1980. Dormivo in un albergo sulla cima di una alta collina che sovrastava il paese di Campagna e giù, sull’altro versante, per una vecchia stradina, come indicava una vecchia insegna, si raggiungeva Calabritto e altri centri del cratere. Una sera, uno dei proprietari mi spiegò che una volta alla settimana lui raggiungeva con il suo camion Monte S.Angelo carico di merce e ne ritornava carico di legna da ardere. Il suo itinerario era appunto per Calabritto, poi Melfi, Lavello, Canosa di Bari. Margherita di Savoia. Gli spiegai che ora c’era l’Autostrada ma lui mi rispose che quella strada lui l’aveva fatta per la prima volta a piedi, in pellegrinaggio per S.Michele e la conosceva a memoria. Mi raccontò che, provenendo da Canosa, a Monte tutti li chiamavano “i Baresi” e loro preferivano non correggerli temendo diversa accoglienza.