Tag: Locuzione idiomatica

Annuvelé l’ucchje

Annuvelé l’ucchje loc.id. = Confondere, sconcertare, agire freneticamente.


È una perifrasi tipica nostrana. Significa confondere qualcuno a causa del proprio comportamento frenetico.

Ad esempio il gioco movimentato fatto dai bimbi sotto gli occhi dei genitori creando confusione. Un po’ come dire annebbiare la vista per l’assenza di quiete.

Ovviamente il verbo della perifrasi può coniugarsi in modo passivo.

Basta! Me stéte facènne annuvelé l’ucchje! = Basta! Mi state creando una gran confusione!

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Stèmme scarse a fetjinde!

Stèmme scarse a fetjinde!… loc.id. = Sentivamo la mancanza.

È ammessa anche la versione al presente “Stéme scarse a fetjinde

È una esclamazione divertita, come di sollievo, usata verso qualcuno quando, del tutto inatteso, si presenta ad una festa, o si accoda ad un gruppo, o si affaccia in casa altrui, ecc.

Come se si dicesse: il nostro “gruppo di fetenti”, era troppo striminzito; meno male che sei arrivato tu a rimpolparlo!…

Ovviamente l’ospite sa benissimo che l’epiteto “offensivo” (clicca ->) “fetente” in questo contesto ha un valore del tutto “amichevole”, e che gli amici non faranno alcuna difficoltà ad ammetterlo nella brigata.

Aggiungo che l’esclamazione calza anche al plurale, nel senso che si si può rivolgere sia verso una persona singola, sia verso più persone che si presentano inattese: sempre scarsi eravamo…

Similmente anche l´esclamazione “amme accucchjéte ´a settante” viene scherzosamente pronunciata quando si raggiunge un bel numero di amici, magari inaspettati (allegri o musoni non fa differenza), come per dire: “ti aspettavamo, mancavi solo tu!”. Tutti sanno che “la settanta” è un punto nel gioco di carte della Scopa (carte a denére, carte a longhe, sètte denére e ´a settante)

Ringrazio il lettore Alfredo Rucher per avermi ricordato questa locuzione, favorendo la stesura di questo articolo.

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Pèrde fiéte

Pèrde fiéte loc.id. = boccheggiare, ansimare

Una locuzione che significa alla lettera “perdere fiato”.

È normale che dopo una significativa attività fisica si abbia l’affanno per l’accresciuto fabbisogno di ossigeno dell’organismo. Addirittura si sente mancare il respiro.

Accade anche ai nuotatori esperti in un momento di apnea prolungata.

L’espressione è usata anche metaforicamente quando si è assillati da eventi incalzanti o da impegni troppo ravvicinati, che non consentono un attimo di tregua.

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Fé a ‘n’öre de notte

Fé a ‘n’öre de notte loc. id. = Picchiare percuotere duramente qualcuno.

Alla lettera: fare ad un’ora di notte.
Fare che cosa? Un po’ enigmatica per i non nativi.

Non è di sicuro una locuzione avverbiale di tempo come suggerirebbe la grammatica… Non significa “agire ad una determinata ora notturna”.

In linguaggio figurato un’ora di notte equivale a buio pesto.
Ecco il nero dell’oscurità è paragonabile all’aspetto del soggetto massacrato di percosse, pieno di lividi, ferite ed ecchimosi.
Rendere irriconoscibile il contendente per le sberle, i calci, i pugni ecc. infertigli.

Il più delle volte, fortunatamente, la locuzione è pronunciata solo come una minaccia esplicita. Raramente, ammesso che si passi all’azione, si arriva a rendere così malconcio un contendente.

Se t’agghje ‘ngramme te fazze a ‘n’öre de notte! =
a) [forma breve] – Ti disintegro!
b) [forma estesa] – Se riuscissi ad afferrarti nelle mie grinfie, ti renderei irriconoscibile in conseguenza delle sevizie cui inevitabilmente e spietatamente sarai sottoposto, per colpa esclusiva delle tue esecrabili azioni.
(Mamma mia!)

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N’ate-e…

N’ate-e… loc.id.= altro, altra, ulteriore.

La locuzione, di uso comune in quasi tutta la  Daunia, è seguita sempre da un numero cardinale.
Ad esempio ‘n’ate-e-sètte  = altri sette.

Alla lettera significa “un-altro-e…”.  Come dire, che oltre al soggetto (persona o cosa già indicata), occorre aggiungerne uno o più, ad esso similare.

‘N’ate e…  è accordabile con qualsiasi misura numerale:
‘n’ate e jüne, ‘n’ate e cinghe, ‘n’ate e növe… ‘n’ate mille, ecc.

Nzjimbre au dottöre nustre stöve ‘n’ate-e-jüne = Assieme al nostro dottore c’era un altro (medico).

Significa anche; nuovo, seguente, ulteriore rispetto al precedente:
T’ho piacjüte ‘u scavetatjille? E purtatìlle ‘n’ate-e-düje o trè = Ti è piaciuto lo scaldatello? Portatene altri due o tre!

Pe mètte ‘na matunèlle. sò trasüte Giuanne e ‘n’ate e trè frabbecatüre = Per sostituire una mattonella sono entrati Giovanni e altri tre muratori (addirittura!).

Se Totò fosse stato delle nostre parti, in “Malafemmena”, invece di comporre: “Si avisse fatto a n’ato chello ch’hê fatto a mme…”, avrebbe scritto: “se avìsse fatte a ‘n’at-e-jüne quèdde ch’à fatte a mmè...”  😀

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Rumanì a pendöne

Rumanì a pendöne loc.id. = Rimanere nubile/celibe

La locuzione Rumanì a pendöne (probabilmente) va tradotta con “restare all’angolo della strada o di un edificio”, ossia non avere una casa, un nucleo familiare.
Forse anche “rimanere penzoloni”, come dire restare in sospeso, ma con scarse possibilità di ottenere una sorte migliore.
Difatti (clicca) pendöne indica l’estremità di un muro, il bordo di un baratro, il margine di un precipizio.

Parlo di quando l’avvento della emancipazione femminile – che le avrebbe rese economicamente indipendenti – non era ancora nemmeno immaginabile. All’epoca il matrimonio era visto dalle ragazze come l’unica e indispensabile via per il loro futuro sostentamento.

È un ‘espressione un po’ amara che si riferiva specificamente ad una ragazza che non era riuscita a convolare a nozze, a crearsi una famiglia, per le ragioni più disparate.
Per esempio per i suoi trascorsi sentimentali molto burrascosi, o per difficoltà caratteriali, o per l’aspetto fisico non invogliante, ecc.

Era rivolta anche ai maschietti, ma qui il celibato è visto come una conseguenza di vari tentativi falliti, o come forma mentis ostile ad assumersi responsabilità familiari, o come innata misogina. Salvo poi, in età avanzata, a pentirsi della loro scelta della cosiddetta “libertà” che li ha infossati in una incolmabile solitudine.

Per contro esiste anche una incoraggiante locuzione (clicca qui) Nescjüna carne ruméne alla vucciarüje

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Mangé scorze e tótte

Mangé scorze e tótte loc.id. = Soverchiare, far un sol boccone del contendente, mostrare superiorità fisica o intellettiva

 La locuzione, tradotta alla lettera, significa semplicemente mangiare qualche frutto (mele, uva, ecc.) con tutta la buccia.

Ma viene usata principalmente in modo figurato, come voler dichiarare di sapere o poter facilmente sbaragliare un antagonista. Vediamo come viene usata:

1) come frase positiva, ha diversi significati poco discostanti tra loro. 

a) Evidenzia la propria abilità verso qualcuno che si vanta pur non avendone capacità o merito.
Se vulüme fé ‘na corse p’i bececlètte, te mange scorze e tótte = se vogliamo fare una corsa con le bici ti faccio mangiare la polvere.

b) Sottolinea la propria esperienza o la effettiva capacità nel risolvere qualsiasi difficoltà..
E che ce völe a munté l’armadje? Mò me la mange scorze e tótte = E che ci vorrà mai a montare l’armadio? Son capace io di farlo in men che non si dica. 

2) come frase negativa , ossia non mangiare il frutto con tutta la buccia, consiglia di non fermarsi alla prima impressione, non sottovalutare una persona o un evento.
Nen te mangianne tutte cöse scorze e tótte = Non credere a tutto ciò ti dicono, ossia devi prima mondare e sgrossare ciò che appare o ti mostrano per capire il nocciolo della questione.

Ringrazio gli amici Francesco Granatiero e Tonino Sorbo che mi hanno dato lo spunto per comporre questo articolo.

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Jèsse füne alla furciüne

Jèsse füne alla furciüne loc.id. = Essere scaltro

Va bene anche scritto Jèsse fïne alla furcïne. Per il suono omofono si può usare indifferentemente la ü o la ï con la dieresi.

Alla lettera significa: essere fino alla forchetta… Ma in lingua italiana non dice nulla, perché molto vaga. La locuzione idiomatica è un’espressione specifica di una lingua, intraducibile alla lettera.
Un esempio? Gli Inglesi quando piove forte dicono che “piovono cani e gatti” (it’s raining cats and dogs), o chiamano il panino con la salsiccia “il cane bollente” (hot dog)… Vabbeh!…

La nostra locuzione si declama per esprimere ammirazione verso qualcuno che ha mostrato furbizia, scaltrezza, avvedutezza o abilità nel compiere un’azione, o anche solo per evidenziarne le capacità. Insomma vale un bel BRAVO!

Uaglió, sì fïne alla furcïne = Ragazzo/a sei davvero in gamba!

Talvolta sarcasticamente vale come antifrasi ad una malefatta…

Semplificando: con la forchetta (ossia nel maneggiare le posate per mangiare) tutti abbiamo acquisito una grande destrezza, perché abituati fin da piccoli. Quindi significa che sei bravo solo a maneggiare la forchetta….

Mi viene il sospetto che furcïne sia una semplice uscita in rima, come in:
Cröce e nöce
Storje e patòrje
Mamurce p’i ‘ndùrce
Nannurche abbasce a l’urte
Pàbbele e fracabbele
Sturte e malurte



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Pigghjé ‘a mmiéte

Pigghjé ‘a mmiéte loc.id. = Prendere la rincorsa

Fare una breve corsa per slanciarsi in un tuffo, un salto, un assalto ecc.
Avventarsi, slanciarsi, piombare addosso a qualcuno o per scavalcare un ostacolo.

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Scìgne ‘n palazze (‘a)

Scìgne ‘n palazze (‘a) loc.id. = Scimmia in palazzo (la)

Questa locuzione idiomatica definisce una donna che ritiene di essere diventata una vera signora  solo perché non abita più al piano terra, come nel secolo scorso avveniva per il popolino.
Difatti i piani più alti erano dimora dei più abbienti, che ostentavano anche così il loro status sociale..

Il corrispondente maschile era definito pezzènte revenüte = pezzente rinvenuto, come per dire che fino a poco tempo prima era un poveraccio…

Il grande Totò spesso ci ricordava che “signori” (nel senso più alto del termine) si nasce, non si diventa.

Ringrazio l’inesauribile dott. Enzo Renato per l’imbeccata.

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