Tag: Locuzione idiomatica

Luàrece quàtte chjöche

Luàrece quàtte chjöche loc.id = Togliersi quattro pieghe.

Le pieghe che metaforicamente si tolgono sono quelle del ventre floscio per il digiuno. Togliersi le pieghe significa riempirsi la pancia, mangiare tanta roba buona fino a rimpinzarsi…

Quando si è digiuni cronici, la pancia si affloscia su se stessa formando delle pieghe, come fa un sacco vuoto quando è appoggiato al pavimento.

Avendo mangiato così tanto si sono tolte le “pieghe” della pancia, che ora appare gonfia e ben tesa. In italiano si dice ridere o mangiare “a crepapelle”.

L’espressione dialettale si usa ancora oggi, ma solo scherzosamente, perché il cibo non riveste l’impellenza di una volta: oggi siamo tutti a dieta!

Ovviamente la locuzione va intesa soprattutto in senso figurato, con il significato di: approfittare della situazione favorevole per ottenere il massimo soddisfacimento (sessuale, contrattuale, commerciale, ecc.)

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Lu rjéle ca facètte Bèrte alla nöre

Lu rjéle ca facètte Bèrte alla nöre loc.id. = Inezia, quisquilia, bazzecola, pinzellacchera (direbbe Totò)

Alla lettera: il regalo che fece Berta alla nuora.

Si usava a Manfredonia che le nuore o le future nuore andassero a casa della suocera la Domenica delle Palme a portare il ramoscello benedetto di olivo, in segno di pace e di distensione. Ed era consuetudine che le brave suocere facessero dono di un oggettino d´oro alla sposa (o promessa sposa) del figlio.
Ma una certa Berta (Roberta) o Betta (Elisabetta), evidentemente di manica stretta, se la cavò con una cosuccia senza alcun valore.
La cosa si divulgò tanto che la locuzione è arrivata ai nostri giorni e viene pronunciata quando si riceve qualcosa senza valore, magari accompagnata da sonanti frasi introduttive per decantare il gesto e il significato del dono.

Grazie al dott. Enzo Renato per il suo prezioso suggerimento.

Ringrazio altresì la gentile lettrice Evelina D’Armi che, a beneficio della memoria storica del nostro dialetto, ha suggerito la versione di una nostra ottuagenaria compaesana.
Quest’ultima ha svelato che il famoso regalo che Berta fece alla nuora era un grattugia, accompagnata dall’augurio:”Non possa mai servire!” neanche fosse un’arma da fuoco!
Questa esortazione equivale ad augurare alla poveretta di mangiare solo cibi poveri, ossia pane e cipolla, e mai un bel piatto di maccheroni al ragù di carne con l’immancabile pecorino pugliese (che richiede inevitabilmente l’uso della grattachése).

Ecco, questa potrebbe essere un’altra interpretazione magari più circostanziata, dello stesso proverbio.

Ho letto on line sul Vocabolario dei “Modi di dire italiani” questa chicca:
«Fare il regalo che fece Marzio alla nuora
– Fare un regalo inadeguato, ridicolo, quasi offensivo per chi lo riceve.
– Secondo un aneddoto, il non meglio identificato Marzio volle premiare la dedizione che la nuora gli riservava da tre anni, e le regalò una nocciola.»

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Jóngeme tótte

Jóngeme tótte loc.id. = Approfittare a piene mani, a sbafo.

Alla lettera significa “Ungimi tutto” .

Quando qlcn racconta di aver approfittato a piene mani di una situazione favorevole, o a scrocco, conclude con la locuzione “Jóngeme tótte!“.

Che ce stöve allà jìnde! Mo so’ avvecenéte e po’ – uaglió – agghje fatte “jóngeme tótte”!
= Che ben di Dio c’era là dentro! Mi sono avvicinato e poi – ragazzi – mi sono ingozzato senza ritegno.

rogoOrigine del detto: si narra che nel Medio-Evo gli avari, che generalmente praticavano anche l’usura, se scoperti dalle Autorità, venivano processati e inesorabilmente condannati al rogo.
Uno di questi, quando il boia con un recipiente pieno di olio si avvicinò per spennellarlo in modo che bruciasse più facilmente, dapprima ebbe un moto di repulsione, pensando al costo dell’operazione, (ecco, l’avarizia innata spunta anche in punto di morte!), ma poi, resosi conto che avrebbe sofferto di meno, chiese il “preventivo di spesa” di questo provvidenziale trattamento.
Rassicurato che sarebbe stato del tutto gratuito, l’avaro/usuraio esclamò: “Franghe jì? Allöre, si ‘u fatte jì frànche, jóngeme tótte”! = È gratis? Allora se il trattamento è gratuito, ungimi dappertutto (senza risparmio)!

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Jì taljànne

Jì taljànne loc.id. = Bighellonare, gironzolare

In Sicilia usano il verbo taliare per dire: guardare, osservare.

Quello che fanno i vagabondi scansafatiche: vanno in giro a guardare, a oziare, a zonzo senza concludere nulla.

Un po’ come dire jì jattjànne, oppure jì caserjànne.

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Jì sembe ‘na canzöne

Jì sèmbe ‘na canzöne loc.id. = invariabilmente, in modo monotono o ripetitivo.

È una cosa immutabile, sempre la stessa, cadenzata, senza sosta. È sempre la solita musica.

Quando si spera invano di trovare un mutamento all’andamento dei fatti, una variazione al tran tran quotidiano, una svolta nella politica, un aggiornamento nel lavoro, si sbotta col dire: ma jì sèmbe ‘na canzöne = Ma è sempre la stessa solfa (due note sol-fa).

A proposito di canzone mi viene in mente Mina che non voleva più caramelle:  «Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai!»

Uffà, jì sèmbe ‘na canzöne! Vuletàmele a tarandèlle. = Uffa, che monotonia! Cambiamo argomento

Similmente si dice anche pigghjàrla a canzöne quando un’azione diventa ripetitiva, monotona, abituale o viene fatta per vizio.
Eh, l’ho pegghjéte a canzöne:  tutt’i matüne sbatte ‘u tappöte före ‘u balecöne! = Eh, costei ogni mattina sbatte il tappeto fuori dal balcone!

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Jì rónne-rónne

Jì rónne-rónne

Jì rónne-rónne loc.id. = Prenderla alla larga., girare intorno all’argomento

Iniziare un argomento partendo a molto lontano, tanto che l’interlocutore non sa dove il narrante vuol andare a parare.

Dopo un lungo discorso, arrivati al dunque, l’ascoltatore sbotta in: ma dìlle candànne ‘u fatte! = ma vieni subito al sodo! Alla lettera: dillo cantando, il fatto (senza girarci tanto attorno).

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Jì pe’ zàrre

Jì pe’ zàrre loc.id. = Fare raccolto scarso

Ma può significare anche fare una pesca scarsa, fare una notte quasi insonne, andare in bianco sessualmente, ricevere un compenso inadeguato alle energie profuse o alle attese.

Meh, si jüte pe cecòrje? ch’à fatte? No, so jüte pe zàrre! = Ebbene, sei andato a raccogliere le cicorie campestri? Nei hai trovate? No, ho raccolto una quantità esigua, sono andato scarso.

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Jì pe sòtte

Jì pe sòtte loc.id. = Penare

Tribolare per colpa altrui.

Purtroppo nella vita succede di essere travolti da eventi che causano pene e disagi a causa degli altri, i cosiddetti furbi.

Vüje faciüte i fèsse, e jüje véche pe sòtte = Voi vi comportare scorrettamente e io dovrò patirne le ripercussioni.

Un bambino di pochi anni, che dormiva con mamma e papà, cadde dal letto a causa del “movimento” notturno dei suoi focosi genitori, e si lamentò con il fratellino maggiore:

Mamme e tatà fànne la lòtte: e jü véche pe sòtte: bùm!= Mamma e papà “fanno la lotta”, e io subisco le conseguenze: bùm!

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Jì jattiànne

Jì jattiànne loc.id. = Bighellonare

Gironzolare, girovagare alla ricerca di prede, come fa il gatto quando mira il topo.

Addu jì’ ca jéte jattjànne? = Dov’è che andate gironzolando?

Si riferisce ai giovanotti che cercano di avvicinarsi alla ragazza puntata, camminando “casualmente” e ripetutamente nei suoi paraggi.

Non è detto che invece sia lui la preda mirata dalla donzella, che gli fa credere quello che vuole… Ma questa è storia risaputa quanto il mondo.

In Calabria usano il verbo papariare = camminare impettiti come le papere.

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Jì de nànze

Jì de nànze loc.idiom. = Procedete, avanzare, proseguire.

Usato nella locuzione andare avanti, sopravvivere nonostante tutto.

Cüme facjüme a jì di nanze? Marìteme sté alla spasse! = Come faremo a sopravvivere? Mio marito è disoccupato.

Nüje pe’ quàtte fìgghje süme jüte de nanze ‘u stèsse
 = Noi, con quattro figli, abbiato proceduto lo stesso, nonostante le difficoltà.

‘Nce pöte jì de nanze! = Non si può più vivere (per la recessione economica, per la criminalità, per il malcostume dilagante, per la burocrazia esasperata, ecc. ecc.)

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