Tag: Locuzione idiomatica

Mètte ‘a vunnèlle

Mètte ‘a vunnèlle loc.id.= Soggiogare

Alla lettera significa mettere la gonna.

Beh, allora si poteva dire: indossare, o far indossare la gonna!

No! Il significato è simile alla locuzione italiana: “in casa i pantaloni li porta lei”! Ossia il capo famiglia ha ceduto le chiavi di comando alla gentile consorte, che porta avanti la baracca, o perché sa cavarsela meglio o perché è più autoritaria su un marito evidentemente remissivo.

Quindi si tratta di un’azione figurata che significa assoggettare, soggiogare: “rendere sottomessa una persona anche con energici mezzi coercitivi fisici o psicologici.
Oppure tenere in proprio dominio la  mente di qualcuno, esercitando un’influenza, o un fascino irresistibile; affascinare con modi suasivi, con la bellezza, la grazia” (De Mauro- Il dizionario della lingua italiana).

Allora, in riepilogo: o portare i pantaloni lei, oppure mettere la gonna a lui, il risultato è il medesimo.

Povere a jìsse! La megghjöre l’ho mìsse ‘a vunnèlle. = Poverino, la moglie lo ha soggiogato.

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Mené a mmósse

Mené a mmósse loc.id. = Rinfacciare

Quando qlcu si adopera per fare un grosso favore ad un amico fa indubbiamente una cosa lodevole. Ma se poi lo racconta a tutti, e magari allo stesso soggetto beneficiato, fa una cosa riprovevole.

Traduzione della locuzione: lanciare in faccia, rinfacciare, allo scopo di mettersi in evidenza, di prendersi i meriti e il plauso di tutti.

Mariètte jì böne e chére, ma se te fé ‘nu piaciöre te lu möne sèmbe a mmósse. = Marietta è buona e cara, ma se ti fa un piacere immancabilmente te lo rinfaccia.

Nò pe’ menàrle a mmósse, ma jüie l’agghje fàtte döj nòtte au sputéle quanne c’jì opéréte. E l’agghje fatte veramènde pe’ tutte ‘u cöre. = Non per rinfacciarglielo, ma io ho fatto due nottate (al suo capezzale) quando si è operato. E l’ho fatto veramente con tutto il cuore.

Se davvero l’avesse fatto con tutto il cuore, non lo andrebbe a dire in giro…

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Mené ‘u fjirre a Sande Lunarde

Mené ‘u fjirre a Sande Lunarde loc.id. = Ringraziare Dio

Traduzione letterale: Lanciare il ferro a San Leonardo.

Modo di dire incomprensibile, ermetico per i ragazzi di oggi, ma  ha un significato plausibile solo a quelli di una certa età

Bisogna sapere che San Leonardo Noblac (fine del sec. V-inizi del sec. VI) è considerato dalla Chiesa Cattolica il protettore dei carcerati e dei prigionieri di guerra.  Infatti è raffigurato nelle immaginette agiografiche in mezzo a dei penitenti inginocchiati e in catene.

In passato quando qualche detenuto veniva liberato (per indulto, o per condono, o perché riconosciuto innocente, o anche solo per fine pena) o qualche militare tornato da un campo di prigionia, portavano per devozione e ringraziamento un ceppo, o un pezzo di catena all’Abbazia di San Leonardo, in Località Lama Volara, a 10 km da Manfredonia.

L’Abbazia era recintata, e non sempre era aperta a tutti. Allora costoro lanciavano il “ferro” all’interno dello spiazzale, facendolo volare sopra il cancello o il muro di cinta. Ecco il perché di mené = lanciare.

Quindi il detto significa “devi essere grato a qualcuno, perché, nonostante tutto, ora hai superato tutte le tribolazioni che ti avevano afflitto in precedenza.”

Questo qualcuno può essere Dio, un benefattore, un amico, la sorte.

A chi racconta di essere sopravvissuto ad eventi gravi (incidente stradale, terremoto, cataclisma, malattia, naufragio, ecc.) viene raccomandato:
Va mjine ‘u fjirre a Sande Lunarde = Ringrazia il Signore di come ti è andata!

La statua del Santo, da qualche decennio è situata in una nicchia della Chiesa di S.Maria delle Grazie. Il simulacro era ricoperto, almeno così lo ricordo io, con delle catenelle simboleggianti la prigionia trascorsa.

Io ho assistito da bambino (avevo una decina di anni) al gesto di ringraziamento di un devoto che, dall’ingresso della chiesa e fino alla nicchia del Santo, avanzava ginocchioni con una catenella al collo. Davanti alla nicchia posò la sua catena, con pianto e lacrime.

Rimasi molto colpito da questo gesto. Mia madre dopo mi ha spiegato il significato profondo di quell’atto di umiltà.

La ricorrenza di San Leonardo cade il 6 novembre,

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Menàrece jìnde

Menàrece jìnde loc.id. = Stuprare

Questo modo di dire locale, alla lettera, significa: precipitarsi all’interno di un’abitazione altrui. Il che non è grave se non per lo spavento che il gesto può arrecare ai suoi abitatori.

‘U züte c’jì menéte jìnd’ alla züte! = Il fidanzato si è introdotto nella casa della fidanzata.

Il vero significato è molto più complesso dell’entrare in casa d’altri senza bussare…

Si tratta di un vero e proprio stupro “concordato” tra il focoso giovanotto e la procace fanciulla per indurre i genitori di costei a dare il consenso forzato al matrimonio “riparatore”. In questo modo si aggiravano tutte le opposizioni dei futuri suoceri (babbo non vuole, mamma nemmeno, come faremo a fare l’amor?…).

Un attimo, lei restava sola perché i suoi erano usciti, apriva l’uscio faceva entrare il suo amato. Si chiudevano all’interno quel tanto che bastava. Quando ritornava la madre, e trovava la porta chiusa, sapendo che la sua figliola era all’interno, faceva la ‘sceneggiata’, urlando e sbraitando. Poi arrivava il padre ed erano minacce, suppliche e trattative.

Alla fine: Meh, japrüte, ca nen ve facjüme njinde = Dai, aprite, che non vi facciamo nulla.

E la faccia e l’onore erano salvi. Così vissero tutti felici e contenti.

Talvolta i poveri ragazzi o per ristrettezza di tempo, o per propria scelta, non riuscivano nemmeno a compiere il fatidico atto sessuale. Il fatto di essere stati sorpresi soli e chiusi all’interno di un’abitazione bastava e avanzava per accusare il giovanotto di aver arrecato disonore alla povera fanciulla…

Altre volte l’azione era incoraggiata dai poverissimi genitori di lei che con questo modo riuscivano a far celebrare il matrimonio alla chetichella, senza alcuna festa, la mattina all’alba, senza abito bianco (indegno di essere indossato dalla ragazza disonorata), e nella sacrestia della Chiesa, con pochissimi invitati e pochissimi pasticcini.

Purtroppo si sono registrati anche casi di stupro vero e proprio. In questo caso il giovanotto aveva una sola alternativa o di finire accoltellato o di accettare il matrimonio. Sposava la poveretta ma la convivenza, basata solo sull’attrazione carnale, era destinata a inaridirsi. E non esisteva il divorzio! Figuratevi la vitaccia di entrambi…

Sembra un romanzo ottocentesco. Vi assicuro che tutto questo accadeva quando io ero ragazzotto, diciamo fino alla fine degli anni ’50. Chiedetelo ai vostri genitori o ai vostri nonni.

Una cosa simile consiste nella fuga dei piccioncini in una casa accogliente, con il pernottamente fuori dalla casa dei genitori di almeno una notte comportava le stesse conseguenze. In questo caso (in siciliano si dice fuitina = scappatina) l’azione dicesi scapparecìnne = fuggirsene, fare la scappatina.

Necöle e Lucjètte ce ne so’ scappéte = Micola e Lucietta hanno fatto una fuga d’amore. Alla lettera: se ne sono scappati (da chi? da coloro che si frapponevano alla loro relazione).

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Menàrece ‘nanze

Menarece ‘nanze loc. id. = Anticipare (fig.)

Alla lettera significa “buttarsi avanti”. Come per evitare una caduta.

Figuratamente la locuzione vuol dire: ammettere astutamente, fingendo candore, un atteggiamento colposo, evidenziandone la buona fede, prima che venga scoperto da altri, allo scopo di smorzare l’inevitabile biasimo.

C’jì menétè ‘nanze e ò azzettéte ‘u fatte = Ha anticipato il discorso ed ha confermato il fatto riprovevole.

Il verbo menàrece = buttarsi è ricorrente anche nelle locuzioni:
menàrece ‘mbacce e menàrece jìnde

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Menàrece ‘mbàcce

Menàrece ‘mbàcce loc.id. = Risaltare, reagire

1) Risaltare. Saltare agli occhi. Essere vivace, appariscente, appetitoso.

Accüme sò i trègghje? Belle! Ce mènene ‘mbàcce! = Come sono le triglie? Belle! Saltano agli occhi!

2) Aggredire verbalmente, rispondere indispettiti, reagire inaspettatamente.

‘Na paröle agghje dìtte, e códde c’jì menéte ìmbacce cüm’a ‘nu chéne arraggéte = Avevo appena cominciato a parlare, e subito costui di ha aggredito verbalmente, abbaiando come un cane rabbioso.

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Méle San Dunéte

Méle San Dunéte loc.id. = Epilessia, mal caduco, morbo comiziale, convulsioni.

Alla lettera significa: ‘Male di San Donato’: Santo, che ahimé, evidentemente ne era affetto, o che veniva invocato in soccorso per i soggetti colpiti da attacchi epilettici.

Le crisi epilettiche si manifestano con violente convulsioni che scuotono profondamente il malato con successivo svenimento.

Si dice anche, per enfatizzare uno spavento: M’ha fatte venì ‘u méle San Dunéte = Mi hai fatto venire un colpo!

L’amico medico dr. Matteo Rinaldi, cui va il mio sentito ringraziamento,  mi ha fornito queste notizie:

«Per gli antichi era il “morbo sacro” perché credevano che l’epilettico, in preda all’attacco classico, fosse da considerare invasato da qualche demone. Come spesso accadeva una volta, la non conoscenza di una malattia trovava la giustificazione nel sacro e nella magia.»

Ovviamente tralascio tutta la sua dotta spiegazione storico/scientifica, che esulerebbe dal fine meramente linguistico di questo lavoro.

Ho assistito mio malgrado ad un attacco epilettico di tipo major, con scuotimento e perdita di conoscenza da parte del soggetto, e vi assicuro che non è una cosa da nulla.

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Mettìrece au mbùste

Mettìrece au mbùste loc.id.. = Appostarsi

Collocarsi in postazione strategica, in un posto di osservazione per spiare, sorvegliare, tallonare qlcu.

Me sò mìsse au ‘mbùste pe ‘ntuppàrle a tutte e düje
 = Mi sono messo in postazione per sorprenderli tutti e due.

Deriva dal verbo pustjé = appostarsi, mettersi a far la posta, nascondersi per spiare, per un agguato.

Esiste la locuzione sté ‘mbustéte = essere appostato, appostarsi.

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Manné accatté ‘u petrusüne

Manné accatté ‘u petrusüne loc.id. = rifiutare, mandare indietro, non accettare

Alla lettera significa: mandare qlcu a comprare il prezzemolo. Ossia, non propriamente mandare una persona a quel paese, ma figuratamente e con eleganza – non ritenendola idonea, degna, meritevole – classificarla una nullità, come un infante cui non si può affidare un incarico impegnativo.

La pittoresca locuzione si pronunciava in risposta, ad esempio, a chi chiedeva se davvero una ragazza avsse ricevuto profferte d’amore da un giovinotto, non ritenuto proprio il principe azzurro:

E che fazze? ‘U manne accatté ‘u petrusüne? = Che me ne faccio di un soggetto così?

Come per dire: non è il mio tipo, non mi piace, non sento attrazione vero costui, non mi è simpatico, è ancora un ragazzino, può fare solo il garzone di bottega, andasse a proporsi a qualcun’altra, ecc..

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