Tag: Locuzione idiomatica

Pèzze vjicchje (‘I)

I pèzze vjicchje loc.id. = Rigattiere

Chi compra e vende roba usata, di scarso valore o fuori uso. Straccivendolo, cenciaio, robivecchi, ferrovecchio.

Questa locuzione era usata, dopo il nome del soggetto, quale aggettivo per indicarne il mestiere.

Io ricordo perfettamente Gennarüne ‘i pèzze vjicchje = Gennarino dalle pezze vecchie, lo “stracciarolo”, come dicono i Romani. Gennarino comprava di tutto: rame, rottami di ferro, lana filata, ottone, ossa, semi di albicocche. A noi bastavano 20 lire per andare al cinema di Murgo.
Aveva un magazzino in Via Torre dell’Astrologo.

Ricordo anche Rusüne ‘i pèzze vjicchje= Rosina la robivecchia. Aveva la stessa attività di Gennarino, ed aveva il suo magazzino dalle parte del “palazzo Rosso”, forse in via Giuseppe Di Vagno.

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Pèrde ‘a facce

Pèrde ‘a facce loc.id. = Screditarsi.

Letteralmente: perdere la faccia.

Non provare alcun senso di colpa.

Ha pèrse ‘a fàcce! = Hai perso la faccia. Ti sei sputtanato, non hai il minimo ritegno, sei troppo sfacciato, non ti vergogni?

Altra locuzione simile: Nen tjine a facce ‘mbacce = Non hai la faccia in faccia? (certo, l’ha perduta!)

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Pegghjé ad ùcchje

Pegghjé ad ùcchje loc.id. = Invidiare

Il verbo italiano che più si avvicina è invidiare, quantunque sia molto riduttivo rispetto al verbo usato nel dialetto.

L’invidia sordida è detta malùcchje, da cui deriva pegghjé ad ùcchje può nascere a nostra insaputa. Perciò i vecchi suggerivano di indossare sempre un oggetto contro questi influssi malefici: ‘u condra-malùcchje!

Ad esempio un corno di madreperla o di oro, una mandorla doppia, cioè unita naturalmente come i bimbi siamesi, il numero 13 incorniciato da un cerchio, ecc.

Se l’invidiato era maschietto e si accorgeva dell’occhiata strana dell’interlocutore, senza farsi notare si faceva una grattatina al suo cornetto naturale…

Altrimenti o di nascosto, o anche palesemente ostentando la mano con l’indice e il mignolo sollevati per neutralizzare l’nflusso maligno.

Per evitare di “prendere ad occhio” chicchessia, o quanto meno di mostrare la propria schiettezza, ogni volta che si pronuncia un complimento, anche ai giorni nostri, si accompagna con “benedüche“, ossia parlo, dico bene, senza invidia. Eh già, perché si può pegghjé ad ùcchje anche involontariamente, perché le forze del male agiscono a prescindere.

Cungettè, ma quand’jì bèlle, benedüche, ‘sta criatüre! = Concettina,ma com’è bella (senza invidia) la tua bimba

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Pegghjé a cöre

Pegghjé a cöre Loc.id. = Prendersi cura di qlcn, proteggere, benvolere.

Una bella espressione.

Dare il massimo della propria disponibilità per sorreggere, confortare, aiutare qlcn.

Forse non si usa più – in questo mondo frenetico ed egoista – dedicare il proprio tempo ad aiutare gli altri.

Manca la gratuità del gesto, e pegghjé a cöre diventa “fare una raccomandazione” con tanto di tornaconto….
Ma questa è un’altra cosa.

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Patrüne ‘u mulüne (‘u)

 

U patrüne ‘u mulüne loc.id. = Il proprietario del mulino.

Per i non manfredoniani e per le nuove generazioni questa locuzione è priva di significato.

In pratica il “padrone del mulino” non poteva essere che il cav.Vincenzo D’Onofrio, notissimo pioniere industriale, titolare del celeberrimo “Molino e Pastificio D’Onofrio & Longo”, ritenuto l’uomo più ricco di Manfredonia negli anni ’30-40, nonché compositore cultore e mecenate della musica, avendo a proprie spese finanziato una Orchestra filarmonica composta da elementi locali.

Quindi il significato della locuzione è un aggettivo che vale: ricchissimo. Ma era affibbiato in modo molto sarcastico, a qualcuno che chi si atteggiava a persona benestante, a qualche sprecone o a qualche spaccone che dissimulava una realtà ben più triste: Uì, jì arrevéte ‘u patrüne ‘u mulüne! = Ecco è arrivato il proprietario del Mulino che può permettersi qualsiasi spesa!

Me vògghje accatté düje quartüne: jüne pe mè e jüne p’a fìgghja möje = Voglio comprare due appartamenti: uno per me e uno per mia figlia
Sì, jì arrevéte ‘u patrüne ‘u Mulüne… = Sì, è arrivato il Padrone del Mulino….

In alternativa si richiamava un’altra figura equipollente: ‘u rìcche Pelöne = il ricco Epulone, citato nel Vangelo da Gesù in una parabola, in un indissolubile binomio con il mendico Lazzaro.

Sté sèmbe ‘nand’u cafè d’Aulüse: jòffre a tutte quànde. M’assemègghje a ‘u rìcche Pelöne (o anche m’assemègghje a ‘u patrüne ‘u Mulüne)= Sta sempre davanti al Bar Aulisa: e offre (consumazioni) a tutti. Mi sembra il ricco Epulone (o il Padrone del Mulino D’Onofrio).

Per altro il comm. D’Onofrio non amava frequentare bar o luoghi pubblici, preferendo rifugiarsi in seno alla famiglia o dedicarsi alla sua passione musicale.

Mi piace riportare questa riflessione dell’avv. Enzo D’Onofrio sull’omonimo suo nonno, il Comm. Vincenzo D’Onofrio. 

«Certamente la vox populi ha alimentato il mito de “’u patrüne ‘u mulüne”, volendo significare – anche per rispetto – che il D’Onofrio era una persona generosa, sempre pronta ad aiutare i bisognosi, in particolare nei tormentati periodi delle due guerre.
Benestante, ma non certo ricchissimo! Il D’Onofrio era una persona riservata, discreta, non certo autoreferenziale, non partecipava a manifestazioni pubbliche, profondamente appassionato e legato alla musica.»

Il comm. Vincenzo D’Onofrio e il Premiato Mulino e Pastificio “D’Onofrio & Longo” negli anni ’40
Foto Umberto Valente

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Pàsse ‘nnande pàsse

Pàsse ‘nnande pàsse loc.id. = Gradualmente, a piccoli passi.

La locuzione, oltre che in modo figurato col significato di progresso graduale e costante, descrive anche una reale passeggiata che si protrae piano piano abbastanza a lungo.

In italiano, stranamente, si dice “un passo dietro l’altro” o anche “passo dopo passo”: ma che succede, si cammina all’indietro? È certamente più realista il nostro modo di dire, che tradotto alla lettera significa: “un passo avanti l’altro”.

Passe ‘nnande passe e süme arrevéte a Sepònde = Quasi senza accorgersene siamo giunti a Siponto. Una bella passeggiata!

Passe ‘nnande passe e quedda fìgghje j’ì rrevéte alla làurje
 = Piano piano quella nostra figliola è giunta alla laurea. Brava!

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Paröla möje ai chéne (La)

La paröla möje ai chéne loc.id. = Non sia mai

Alla lettera: La parola mia ai cani.

Si usa questa locuzione prima di pronunciare qls cosa che possa essere mal interpretato dall’interlocutore.

Si preferisce chiarire che quello che si sta per dire di spiacavole non debba nuocere ad alcun essere vivente, tranne i cani. Perciò è meglio che questi siano senza proprietari.

Un po’ come ‘nziamé, allonghe da ‘gnüne, allonga süje

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Parlé segnöre

Parlé signöre loc.id. = Non parlare in dialetto

In effetti significava, almeno fino all’inizio degli anni ’60, eprimersi in italiano, roba da pochi privilegiati (clero, professionisti, proprietari terrieri e ufficiali militari = signori, quindi) poiché tutti gli altri parlavano in dialetto.

Le femminucce avevano inventato il gioco di “parlé segnöre” con divertenti involontarie storpiature: “Si è spasciato il cìcino”: “Ho accattato due chini di potogalli”: “Mia madre ha fatto due belle siccie chiene: sopra l’indorci e a rianata” ecc…

Da quando c’è stato l’avvento della televisione si è diffuso l’italiano finalmente anche come lingua locale.

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Pàrle accüme t’ho fàtte màmete

Pàrle accüme t’ho fàtte màmete loc.id. = Parla la tua lingua madre

È un invito a parlare con linguaggio semplice, senza ricercare parole ad effetto non da tutti comprensibili.

In italiano, per esempio, c’è un aggettivo di moda che è diventato un tormentone: esaustivo. Lo dicono spesso i giornalisti per mostrare la ricchezza del loro lessico. Ma non è più semplice dire ‘esauriente’ o ‘completo’?

E quell’orribile verbo ‘obliterare’? Non è meglio dire vidimare, timbrare, marcare?Vabbè, sono mode e passeranno prima o poi.

Nel caso di questo nostro sito, pàrle accüme t’ho fàtte màmete è un invito a parlare manfredoniano!

Non tradite la lingua madre, abbandonandola per vergogna o per timore di essere giudicati ignoranti.
Con questo mio modesto ma impegnativo lavoro sto sostenendo tutti i Manfredoniani, aiutandoli a conoscere la nostra parlata più intimamente e forse con un pizzico d’amore in più.

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Parì mill’ànne

Parì mill’ànne loc.id. = Non vedere l’ora

La locuzione esprime l’impazienza con cui si vuole ottenere qlcs, mostra il desiderio, la smania, la brama di vedere una persona amata, o di gustare l’arrivo di una stagione e dei suoi frutti, o di la cessazione di un periodo negativo

È un grido di speranza che forse accorcia un po’ i tempi di attesa.

Angöre tre müse: me père mill’anne ca Mattöje fenesce ‘u suldéte! = Ancora tre mesi (di attesa):non vedo l’ora che Matteo termini il servizio militare!

L’italiano ‘sembrare un secolo’ non rende l’idea…’Mill’ànne‘ è più facile da pronunciare e sicuramente più colorito.

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