Tag: Locuzione idiomatica

Sante Martüne

Sante Martüne loc.id. = San Martino.

Corretta anche la grafia Sante Martïne

San Martino, dividendo il suo mantello con la spada per darne metà ad un povero, ha compiuto un gesto consolatorio agli occhi del Signore, dei suoi e dei nostri contemporanei.

Si invoca il Santo per augurare abbondanza, perché il giorno della sua commemorazione, l’11 novembre, come si usa dire, ogni mosto diventa vino ed il clima talvolta si mostra meno aggressivo (il fenomeno, quando si manifesta, viene chiamato “estate di San Martino”).

Se entrando in casa propria o di amici si vede che qualcuna è intenta ad impastare la farina per le pettole o per il pane, spontaneamente si dice, come un voto augurale: Sande Martüne!

Agghje mìsse a crèsce, Sande Martüne = Ho messo la pasta a lievitare, San Martino (non permetterà che il pane diventi azzimo, quindi la massa lieviterà nella giusta misura.)

Altra forma abituale è benedüche/benedïche = benedico, dico bene, non per invidia.
Mia nonna diceva:
«Mitte acque e mitte farüne…
e faciüme crèsce ‘u Sante Martüne»

Voleva significare: “aggiungi un posto a tavola”, o “allunga iul brodo”.  Un segno di genuina ospitalità.

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Sànde tarléte

Sande tarléte loc.id. = Misantropo, orso, riservatoAlla lettera significa «i Santi tarlati»
La locuzione  viene usata con il verbo “uscire” per constatare la rara apparizione in pubblico di soggetti che se ne stanno sempre rintanati in casa.
Li smuove solo un evento eccezionale, poche volte in un anno. Ad esempio il Carnevale, o la Festa patronale, che richiama finalmente anche costoro fuori di casa.

In italiano potrebbe usarsi il detto: ‘L’orso è uscito dalla tana’, o ‘il lupo è uscito dal bosco’.

So’ assüte ‘i Sànde tarléte! = Sono usciti i Santi tarlati.

Va bene anche: Mò jèssene ‘i Sànde tarléte = Adesso escono i Santi tarlati.

Presumo che tutto abbia avuto origine dalla sorpresa suscitata nei fedeli, della inattesa comparsa, nella Processione religiosa, di simulacri di legno di quei Santi tenuti per troppo tempo nel deposito (e perciò soggetti all’attacco dei tarli).

Mèh, so’ assüte püre ‘i Sande tarléte! = Toh,  guarda, sono usciti (in Processione) anche le statue dei Santi (non restaurate e) assenti da anni.

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Ruzzelé alla casére

Ruzzelé alla casére loc.id. = Ritornare a bomba, in argomento, riproporre un progetto bocciato.

Era detto come rimprovero quando qlcu, facendo il finto tonto, ritornava su un’argomentazione, e/o a riformulare richieste che dovevano essere già state sviscerate e concluse da tempo.

E rùzzele alla casére! = E ritorni sempre alla caciaia (formaggiaia, deposito dei formaggi)!. Come per dire: “ma tu sempre qui stai”? Il termine casére è un “prestito linguistico” proveniente dall’Abruzzo.

Il discorso è un traslato e si riferisce ai cani dei pastori abruzzesi, che tassativamente dovevano stare alla larga dal formaggio, perché questo era destinato alla stagionatura e alla vendita.

Ogni volta che si avvicinavano al deposito i poveri cani erano scacciati a pietrate dai pastori! Tuttavia le bestiole, inebriate dall’odore del cacio, irrimediabilmente, dopo un ampio giro in circolo, vi ritornavano sperando di riceverne un pezzo.

Nulla mi vieta di pensare che la locuzione sia proprio di origine abruzzese, visto la simbiosi fra l’Abruzzo e la Puglia, dovuta alla secolare transumanza (pastorizia trasmigrante) fra queste due Regioni che apportò scambi linguistici, culturali, gastronomici, ecc.

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Ruzzelé ‘u prüse

Ruzzelé ‘u prüse loc.id. = Rivoltare il cantero.

Ho già spiegato che cos’è ‘u prüse e che significa ruzzelé (click sulle parole).

La locuzione vuol mettere in guardia dallo sviscerare certi argomenti che sarebbe stato meglio non toccare perché scomodi sia per chi parla, sia per chi ascolta.

Infatti è sottintesa la seconda parte del Detto: chjó ce ruzzelöje ‘u prüse e chjó ce sènde ‘u fjite = più si rimesta il cantero, e più si sente la puzza.

Insomma sarebbe meglio “metterci una pietra sopra” o “stendere un velo pietoso sull’argomento” come figuratamente si dice in lingua italiana.

Ringrazio Amilcare per il prezioso suggerimento.

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Rüme sotta vjinde

Rüme sotta vjinde loc.id. = Indifferenza

La locuzione “venì p’u rüme sottavjinde” alla lettera significa: Venire con il remo sottovento.

Si dice così perché, secondo la mia opinione (opinabile), il remo posto di taglio, non oppone alcuna resistenza alla forza del vento, e si insinua facilmente nel flusso d’aria.

In realtà vuol dire: ostentare indifferenza mentre si ha le orecchie tese; inserirsi quasi distrattamente tra alcune persone riunite, fingendo di non porre alcuna attenzione ai loro discorsi, dissimulando indifferenza.

Quando qlcu se ne accorge lo affronta di petto: Mò te ne vjine per ‘stu rüme sottavjinde e vjine a sènde i càzze nùstre! = Adesso ti avvicini con il tuo fare indifferente e vieni ad spiare le nostre opinioni.

 

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Rumanì pe summènde

Rumanì pe summènde loc.id. = Serbare per la riproduzione

Generalmente la locuzione designa il pollame che non veniva macellato, ma era messo da parte per servirsene in seguito per la riproduzione.

Era considerato un pennuto sano e vigoroso, e perciò tenuto in riserva.

Quando qlc giovanotto faceva lo spaccone, evidenziando le sue doti e decantando le sue mirabolanti prestazione, qlcu commentava sarcasticamente: Sì, l’amma rumanì pe summènde = Sì, lo dobbbiamo serbare per la riproduzione

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Rumanì jómme

Rumanì jómme loc. id. = Rimanere a bocca asciutta

Alla lettera significa restare all’olmo. Che c’entra l’olmo?

Nel gioco della passatella, in dialetto chiamato “patrüne e sòtte” = padrone e dipendente (sottostante), alcuni giocatori bevevano il vino, ma uno solo, per scelta dispettosa del capriccioso “padrone” dopo il suggerimento del “sotto”, doveva rimanere a bocca asciutta.

L’olmo nelle antiche colture vitivinicole, era quella pianta destinata a sostenere i tralci della vite. Poiché l’olmo non produce il vino, il malcapitato giocatore preso di mira non poteva bere il succo della vite, ma il ‘niente’ prodotto dall’olmo.

Questo gioco talvolta finiva a risse e non poche volte a coltellate!

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Rezzeché i carne (fé)

Rezzeché i carne (fé) loc.id.= Accapponare la pelle

Usato anche arrezzeché  e in forma intransitiva arrezzecàrece i carne.

Fé rezzeché i carne significa che un racconto o un avvenimento coinvolge emotivamente ed intensamente qlcu tanto da procurargli la pelle d’oca, ossia brivido, emozione, timore, sorpresa, impressione.

A preggessiöne d’a Madonne de Seponde, me fé arrezzeché ‘i carne da ‘ngudde = La processione del quadro della Madonna di Siponto, mi si sollevano le carni da dosso. (mi emoziona intensamente).

Me sò sunnéte a nanonne, vöra vöre, ca me guardöve fisse fisse e nen deciöve njinde: škìtte a düce ce rezzechèjene i carne = Ho sognato mia nonna, nitidamente, che mi fissava e taceva: solo a raccontarlo mi sto commuovendo (mi si accappona la pelle).

 

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Rére-ascennènne

Rére-ascennènne loc.id. = A ritroso

È ammessa anche la forma contratta rére-scennènne.
Alcuni pronunciano anche rére e scennènne.

Andare indietro nella storia delle persone, risalendo di generazione in generazione.

Presumo che questo rére può aver affondato le sue radici in “rerum”.

Coloro i quali hanno studiato il latino, sanno che significa “delle cose”. Quindi: delle cose dei nostri avi, dei nostri ascendenti, arrivate fino a noi discendenti.

Profumo nostalgico di buone cose antiche.

Provate a pronunciare più volte questo termine: oltre che evocare i ritmi ciclici del tempo, sembra di pronunciare il verbo ridere e anche le labbra si distendono in un sorriso.

Io che sto spiegando questo termine antico, sto andando proprio rére-ascennènne

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Quànne bune-bune…

Quànne bune-bune… loc.id. = Tutt’al più, ammesso e non concesso.

Conclude così un ragionamento sull’opportunità di intervenire alla fine di un’osservazione, di una decisione irrevocabile.

Si potrebbe usare l’espressione ora in auge: chìssene…

Nüje faciüme acchessì: Quanne bune-bune turnéme ‘ndröte = Noi agiamo in questo modo. Tutt’al più, torniamo indiet

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