Tag: Locuzione idiomatica

Sté ai schéle de Taresüne

Sté ai schéle de Taresüne loc.id. = Trovarsi in condizioni precarie

Alla lettera significa: Stazionare sui gradini di Teresina.

La traduzione non significa nulla se non si conosce l’origine della locuzione.
Ci sono due “scuole di pensiero”
A) Dicono che tanti anni fa una  Signora di nome Teresina faceva beneficenza alle persone bisognose che sostavano ai primi gradini della scalinata di casa sua (un po’ come ai tempi di oggi fa la Charitas diocesana che distribuisce dei pacchi viveri ai bisognosi).
Insomma la caritatevole Teresina donava loro degli alimenti  ogni giorno. Era a suo modo un’autonoma “Assistente sociale” ante litteram.
La location è  quel portoncino di fronte al Municipio vicino al Bar Centrale. Collocare con esattezza l’epoca in cui la Teresina in questione svolgeva la sua attività di benefattrice è difficile, e si perde nella notte dei tempi.

La locuzione ci è stata tramandata di generazione in generazione. Tant’è che io l’ho sentita da mio padre, classe 1901.

Calza bene il fatto di “stare alle scale di Teresina”, significa comunque trovarsi in cattive acque e pazientare davanti a quelle scale, con la speranza di ricevere un aiuto concreto dalla benefica Teresina.

Se nen ce stéme attjinde, jéme a fenèsce tutte quande ai schéle de Taresüne! = Se non stiamo attenti (con le spese domestiche o aziendali) andremo a finire tutti a chiedere l’elemosina!

B) L’amico Matteo Borgia (che ringrazio) mi ha fornito una seconda versione. La trascrivo integralmente, ritenendola ugualmente attendibile:

«Teresina era una signora che aveva una casa in piazza del Popolo (che allora si chiamava Piazza della Rivoluzione e prima ancora Piazza del Municipio), lungo corso Manfredi, sul lato sinistro andando verso il castello, quasi all’incrocio con via Arcivescovado. Davanti alla sua porta c’erano due gradini.
La piazza era il punto di ritrovo dei braccianti che chiedevano di poter lavorare alla giornata. Quando il curatolo (u curàtele), cioè il fiduciario del padrone dei terreni, decideva che era necessario assumere dei braccianti, un intermediario (u capuréle, il caporale) si recava in piazza e sceglieva le persone da avviare.
A volte, bastava uno sguardo o un semplice gesto col dito puntato: “Tó, tó e tó”. Chi non veniva scelto, non poteva far altro che aspettare il prossimo giro. Nell’attesa, per non lasciare la piazza e non perdere l’occasione, i braccianti disoccupati si sedevano alle scale della signora Teresina, da cui il famoso detto.»

Ringrazio Gigi Rubino per questa “imbeccata”.

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Sté ‘ngudda-ngùdde

Sté ‘ngùdda-ngùdde loc.id. = Assillare

Alla lettera significa star addosso addosso, nel senso di non dar tregua, opprimere, assillare.

Un po’ come l’italiano ‘stare alle costole’. Ossia seguire, osservare attentamente in modo che la persona presa di mira righi dritto, non sgarri nemmeno un tantino dalle intese, dalla sua condotta, dai suoi impegni.

Te péje ‘a chése? Stàlle ‘ngudda-ngudde! = (L’inquilino) ti paga (con regolarità e puntualità la pigione relativa al)la casa? Stagli addosso, non dargli tregua!

Un’espressione simile è cué l’àneme = “covare” l’anima. Covare come fanno i pennuti che si pongono sempre addosso alle uova senza lasciarle un solo istante.

 

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Staggiöne de l’arje

Staggiöne de l’arje loc.id. = Epoca della trebbiatura

Alla lettera: stagione dell’aia = stagione estiva, dal punto di vista dell’agricoltura.

Si dice ‘u staggiöne,al maschile, per indicare il tempo della mietitura. Infatti detto al femminile ‘a staggiöne significa ‘estate’.

Auànne véche a fé ‘u staggiöne de l’arje a Vresendüne = Quast’anno vado a fare la trabbiatura a Bersentino.

Costui può essere un bracciante agricolo, un motorista, un operaio addetto al trasporto delle biche, ecc. Una volta la trebbia era fissa sull’aia, e qui si eseguiva la trebbiatura del frumento.

Il personale veniva assunto in anticipo dal proprietario del fondo, in modo da avere la mano d’opera certa al momento giusto, dopo il completamento della mietitura.

Al giorno d’oggi, con le mietitrebbie semoventi, basta un solo operaio.

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Arrecurdé ‘i spèzzje andüche

Arrecurdé i spezzje andüche loc.id. = Ricordare le tradizioni antiche.

È un’espressione molto bella che può essere usata per parlare – magari fra due vecchie amiche – di teneri ricordi del passato con una vena di malinconia.

Le persone anziane rivivono e rievocano fatti e persone del loro passato rivestendoli di profumi, aromi, atmosfere, come posso fare le spezie aromatiche, gradevolissime perché tenui e non stancano mai.

Credo che nelle spezzje andüche, spesso, ci possa essere molta più saggezza di quanto si creda.

Questa locuzione viene usata anche in senso canzonatorio – spesso da una persona più giovane verso una meno giovane – per criticare vecchie usanze ritenute superate.

V’arrecurdéte sèmbe ‘i spèzzje andüche = vi ricordate sempre gli episodi antichi!

La frase assume addirittura un risvolto negativo quando si ritiene inopportuno ritornare su episodi ormai superati.

Ce avèsseme arrecurdé ‘i spèzzje andüche! = Che facciamo, andiamo a rinvangare il passato? Potrebbero riaprirsi delle brutte ferite. È meglio che la finiamo qua.

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Spezzeché ‘u corje

Spezzeché ‘u còrje loc.id. = Staccare la pelle, somigliare.

1) Spezzeché ‘u còrje = Scorticare. Se questo verbo è detto in tono minaccioso, significa scuoiare qlc dalle percosse.

2) Spezzeché ‘u còrje = Somigliare. Molto più usato in questo senso. Il significato reale è quello di essere somigliantissimo a qlcu. (al padre, al fratello, alla sorella alla madre ecc.), come se avesse “staccato” le fattezze della persona cui si fa riferimento per la somiglianza le avesse “indossate” lui.

Ha spezzechéte ‘u corje a pàtete = Sei il sosia di tuo padre.

Come sinonimo si usa la perifrasi tagghjé ‘a chépe = tagliare la testa. Figuratamente come se si fosse trapiantata la testa della persona somigliante.

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Spacchéte

Spacchéte agg.,s.f. = spaccato, diviso, frcassato; fare sfoggio 

1 : Spacchéte agg. = rotto, tagliato, spaccato.

2 – Fé ‘a spacchéte (p’a chjazze) = Fare una passeggiata per il Corso ed esporsi all’ammirazione degli altri con insistenza e vanto.

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Sorte de

Sorte de loc.id. = Straordinario, splendido, magnifico, ecc.

Che ha carattere di straordinarietà per bellezza, dimensioni, bontà, cattiveria, ecc.

Non credo che in italiano ci sia un modo così efficace come questa locuzione tipica pugliese. Se mi sbaglio di correggerete!

‘Na sorte de vàrche = Una straordinaria barca.

Stàteve attjinde ca quà stéje ‘nu sòrte de canagghjöne! = State attenti che qui c’è un pericoloso cagnaccio.

‘Sorte de chése ca tjine! Accüme fé? = Che splendida casa che hai! Come fai (a tenerla in ordine)?

‘Sta sorte de pìzze nen ce la fazze a mangé = Quasta enorme pizza….non ce la faccio a mangiare!

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Škattjé ‘i méne

Škattjé šcattjé ‘i méne loc.id. = Applaudire

Battere fragorosamente le mani per manifestare consenso e ammirazione.

Acclamare in segno di assenso un oratore al termine del suo discorso, un’esibizione musicale, strumentale e/o vocale, teatrale, artistica, sportiva, di ballo, ecc.
Trovo un po’ stucchevole la moda recente di šcattjé ‘i méne  alla salma, al termine del rito funebre.

Tutte quande hanne škattjéte ‘i méne a Luciéne = Tutti hanno applaudito Luciano.

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Škatté ‘u föle

Škatté (o šcatté) ‘u föle loc.id. = Far crepare d’invidia qualcuno, indispettire, irritare.

Locuzione molto pittoresca rivolta col pensiero agli invidiosi.

Costoro si rodono e soffrono di un sentimento astioso verso gli altri nel benessere, verso ciò che reputano il loro pregio o le loro fortune.

Questo sentimento, viene percepito dalla persona invidiata come influsso demolitore.
Ecco che, quale “contromisura”, l’invidiato esegue una serie di scongiuri (palesi o anche occulti), come il “toccamento” di cornetti rossi o di una parte di se stesso che non sto a nominare, la mostra del pugno con l’indice e il mignolo sollevati, ecc.

Te jà škatté ‘u föle! = ti devo crepare la bile (perche ti roderai inutilmente a causa dell’invidia, perché tu sei impotente contro la mia fortuna, il mio benessere, la mia bellezza, ecc.).

Significa in pratica, in casi meno gravi, comportansi con assoluta indolenza.

Materialmente škatté ‘u föle è un infortunio che capita a coloro che puliscono le seppie e accidentalmente rompono la vescichetta dell’inchiostro.

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Škatté ‘u cüle ai mangiulècchje

Škatté o (šcatté) ‘u cüle ai mangiulèchje loc.id. = Picchiare (del sole)

È un termine di paragone per dire che il caldo è così torrido che fa crepare il culo perfino alle lucertole, che pure sono veloci nello spostarsi sul terreno arroventato dalla calura estiva.

Che jéte facènne? Sté ‘nu söle ca škàtte ‘u cüle ai mangiulècchje! = Siete sventati! C’è questo sole che picchia forte e voi andate in giro?

Sant’Andònje, che càvete! Fé škatté ‘u cüle ai mangiulècchje! = Sant’Antonio, che caldo! È talmente caldo da far scoppiare!

Notate che quando fa caldo, almeno i nostri genitori nominavano Sant’Antonio (perché la ricorrenza di questo Santo è di giugno), e non ad es. San Nicola che viene di dicembre.

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