Nen ce capisce a pèzz’u scitére.
È un Detto antico quando si constatava, con costernazione, lo stato di povertà di una persona o di un qualsiasi dimora.
In pratica, alla lettera, significa che non si riesce a comprendere quale sia il tessuto originale, perché tante volte rattoppato con pezze differenti per specie o colore.
Ringrazio gli amici Rinaldi e Caratù, autori del pregevole “Vocabolario di Manfredonia” i quali mi hanno inviato un grazioso commento, ove spiegano anche l’etimologia di scitére, sinonimo ormai desueto del già vetusto (clicca→) pannazzére.
«Dal proverbio si deduce che il nostro dialetto raccoglie anche termini arabi, oltre a immagini del tempo passato: la gente povera (ma laboriosa!) che indossava vestiti rattoppati mille volte (tanto da non poter capire quale fosse il tessuto originario!).
Ricordo ‘gli sciabbicaioli’ in mutandoni multicolori, quando tiravano a riva la sciabica,
Shitan, in arabo (scritto con una sorta di disegno, come si esprimono gli arabi) vuol dire ‘tessuto, panno’, per cui l’attinenza è chiara. Il sinonimo è il noto ‘pannazzére‘ (voce dialettale adottata fino a mezzo secolo fa)».
Avevo nove anni quando, con tutta la mia famiglia, ci trasferimmo a Taranto e, quindi, fu lì che dovetti frequentare la Quinta Elementare. Abitavamo nella Città Vecchia e la mia scuola era vicino, in un antico palazzo signorile ora sede dell’Università. Anche il Maestro era un antico signore che aveva fatto la Prima e la Seconda Guerra mondiale al quale dovevamo rispondere col Sissignore o Nossignore. La prima volta che fui chiamato alla lavagna per scrivere la traccia di un problema aritmetico, dopo un po’ sentii dei mormorii della classe e il Maestro, che ci permetteva appena di respirare, prima chiese silenzio, poi mi chiamò e mi chiese di alzare l’orlo del grembiule nero che indossavo come tutti in classe e mostrai il pantalone corto che indossavo, in velluto grosso di colore grigio scuro, solo che, tra le gambe, il “cavallo” dei pantaloni era dello stesso tessuto ma di colore blu scuro. In pratica mia madre, provetta sarta, aveva rattoppato il “cavallo”, consunto per l’uso e i continui lavaggi, con la “pezza a colore” che però era nuova e del colore originario e, alzando il braccio per scrivere in alto, si alzava il lembo del grembiule nero di qualche anno prima, che non era cresciuto in altezza insieme a me. Il Maestro fece una lunga disquisizione sull’importanza della “decenza” del vestire terminando con la frase “”La toppa” ai pantaloni, insieme alla pulizia personale, sono segnali di rispetto della “decenza” appunto: non bisogna ridere delle toppe ma della mancanza di pulizia”.
L’anno era il 1952 e all’epoca, nella Taranto Vecchia, abitavano famiglie di pescatori e piccoli artigiani o operai. La nostra padrona di casa era una Contessa e suo figlio, mio coetaneo, frequentava la quinta classe in un edificio scolastico della Città nuova, chiamata “il Borgo”.