Qualsiasi corda dai Manfredoniani terragni è chiamata zöche.
Faccio degli esempi:
quella utilizzata dalle massaie per stendere il bucato:
quella usata, legata al secchio, per attingere l’acqua dal pozzo;
quella adoperata per suonare le campane della chiesa;
quella impiegata nei giochi fanciulleschi (salto, altalena, tiro alla fune, ecc.)
quella in uso nello sport (salto, alpinismo, sci d’acqua)
quella (brrrr) utilizzata dai suicidi o anticamente per la tortura o per giustiziare i condannati all’impiccagione.
Diminutivo: zuculèlle s.f. = cordicella, funicella. A volte, quasi a indicare uno spago, un laccio si usa il maschile zuculìlle.
Memorabile la frase pronunciata da un tizio che si sforzava di parlare in italiano, quando narrava della sua partenza per Milano, con la “bbalicia attaccata con la zoca”…
In marineria invece si usa un linguaggio più articolato, appropriato allo spessore della corda: sagola, cima, gomena. Non sentirete mai un marinaio usare zöche o peggio còrde.
Trascrivo a proposito di zöche, quanto ho recentemente letto in rete sui termini spagnoli entrati nei dialetti meridionali:
«Ebbene, anche il termine “zoca” proviene dallo spagnolo “soga”, con lo stesso significato di “corda, fune”. Si noti questo proverbio identico in spagnolo e italiano: “No se ha de mentar la soga en casa del ahorcado” = “Non si deve nominare la corda in casa dell’impiccato”.»
Il topo delle fogne (Rattus norvegicus) è un mammifero roditore simile al topo ma più grande, con muso appuntito e coda rivestita di squame.
È un animale diffuso in tutto il mondo. Apportatore della Leptospirosi, malattia mortale per l’uomo. Sinonimi: surmolotto, pantegana, martorana
Zòcchele (dal latino sorculam) significa anche donna di malaffare. Con termine ancora più spregiativo la prostituta di lunga esperienza viene detta zucculöne.
Lo zipolo è un bastoncino di legno con un’estremità leggermente appuntita. È usato specialmente per otturare il foro di spillatura delle botti. Il termine è di origine longobarda e deriva dalla voce antica zippel e dalla sua successiva italianizzazione zippa, che significa estremità appuntita oppure cuneo [da Wikipedia]
Nei lavori campestri prende questo nome uno stecco di legno, anch’esso appuntito, che serve a bucare il terreno per inserirvi i semi di piselli, di fave, ecc.
Dallo stesso etimo origina anche il termine italiano zeppa.
Qualcuno invece di tre sillabe (zip-pe-re) ne pronuncia due (zìp-pre). È accettabile, specie se si volge al diminutivo zippretjille = stecchino, virgulto secco.
Sorella di uno dei genitori, considerata rispetto ai loro figli; moglie dello zio.
Ziolle è un diminutivo affettuoso dei nipoti. L’italiano zietta non rende bene il sentimento che traspare dall’appellativo nostrano.
Quando il nome della zia è sottinteso, si dice Ziolle. Quando si antepone al nome proprio si pronuncia Ziolla.
Qlcu dice che è designata con questo appellativo solo la zia maggiore, o più anziana rispetto alla madre dei nipoti. Io personalmente chiamavo così tutte le sorelle di mio padre: Ziolla Rachelüne, Ziolla Felumöne, Ziolla Marüje, Ziolla Seppüne, indipendentemente dalla loro età.
“Il fratello del padre o della madre, rispetto ai figli di questi: zio paterno, da parte di padre; zio materno, da parte di madre | ( estens.) marito della zia | gli zii, lo zio e la zia”
Questa descrizione del vocabolario della lingua italiana mi va un po’ stretta…
Ritengo che gli zii, e specialmente le zie, siano per i loro nipoti persone molto più indulgenti e accattivanti dei propri genitori (che devono essere istituzionalmente e giustamente più severi).
Dal punto di vista grammaticale, in dialetto il termine ziène è del tutto invariabile.
Dall’articolo si deduce se è maschile, femminile, singolare o plurale.
Per l’attribuzione della parentela c’è tutta una classifica. Vediamo insieme:
Mio zio = ziàneme, ‘u ziéne müje
mia zia = ziàneme, ‘a ziéna möje
tuo zio = ziànete, ‘u ziéne tüje
tua zia = ziànete, ‘a ziéna töje
suo zio = ‘u ziéne süje
sua zia = ‘a ziéna söje
loro zio = ‘u ziéne löre
loro zia = ‘a zièna löre
i loro zii = ‘i ziéne löre
le loro zie = ‘i ziène löre
Se in forma aggettivale precede il nome proprio (esempio: lo zio Matteo), si usa ‘u zzüjeper il maschile e ‘a zzüja per il femminile.
‘A zzüja Marüje uà passé giuvedì = La zia Maria deve passare (passerà) giovedì
Rivolgendosi ad una persona avanti con gli anni che non si conosceva, si diceva: Ze-züje= Zio.
Ovviamente era una forma di rispetto per l’età, e poi non era lecito dare del tu agli anziani. Ze-züje, segnerüje add’jì ca jàvete? = Buon uomo, voi dove abitate?
Ultimo avviso di carattere fonetico: mentre in italiano la zeta è sorda (pronuncia di pezzo) in dialetto è sonora (come in azzurro)
Della misura precisa, che ha giustezza ponderale, cromatica, dimensionale rispetto ciò che ci si aspettava.
Me sò museréte i scarpe töje, e me vanne zìcche-zìcche = Ho misurato le scarpe tue, mi calzano a pennello.
Va bene anche detto ironicamente quando qualche sciocco si paragona ad altri che hanno doti chiaramente più eccelse.
Je sacce candé téle e quéle a Pavaròtte! – Sì. Zìcche zìcche, nen te manghe njinde… = Io so cantare proprio come Pavarotti! – Sì, nello stessa maniera, non ti manca niente…
Il prof. Michele Ciliberti dice che l’etimologia è dal latino sic sic, cioè “così così”!
Nota fonetica: La “z” va pronunciata sorda (come marze = marzo) e non sonora (come zöre = zero). Vedi la differenza di pronuncia tra zìcche-zìcche e ‘nzìcchete-‘nzìcchete.
Questa espressione mi fa venire a mente una simpatica poesia del nostro concittadino Francesco Granatiero,
Mi sono permesso di trascriverla, con il beneplacito di Francesco, ad uso dei nostri lettori, con la relativa traduzione quasi letterale. È il lamento di San Lorenzo Majorano, nostro Santo patrono.
“M’avèveta chiamé….zìcche mò!”
Eh Segnöre! m’avèveta chiamé zìcche mò, cu ‘stu favógne ch’ò ‘ppeccéte mjizze mónne! Chi me l’avöva düce de fé ‘u Prutettöre de ‘sti mazzangànne ca ce respègghjene škìtte a Carnevéle, o a lu spére du cannöne, ‘a Festa Grànne!
Düche jü: nen putöve jèsse, che sacce, Sant’Andònje? Códde pìgghje vüte a tutta fòrze! E püre mò ca i Partüte non ce làssene manghe li scòrze!
Nen putöve jèsse San Gennére? Códde sté chjüne a denére! Ogni volte ca fé fé tèrne, quatèrne e cinguïne, mìneme ce abbóške ‘na catenïne!
Nen putöve jèsse San Dumìneche? A códde enjinde che Chjise e che Palàzze avüte fàtte! E apprjisse a preggessjöna möje? Škìtte quàtte jàtte!!!
Jü, pòvere Crìste, söpe a ‘stu cavalle pàcce, chjandéte jìnd’u Cumüne a vedì cèrte fàcce…
Eh, ma mò nen ce la fàzze! Ve ne sïte scurdéte ca sò rumaste škìtte pe ‘nu vràzze?
Ah! Chi me l’avöva dïce, de fé lu Prutettöre de ‘stu Pòpele ‘nféme e tradetöre, ca da tant’anne vé decènne ca sò “amande de frustjire”, škìtte pecchè chjiche jüne non ò truéte ‘a zïte, o ‘nu mestjire.
La vulüte capì ca sò škìtte ‘nu Sànde, nu pòvere Sande, ca ve benedüce, all’ammèrse e alla drìtte, a tutte quànde?
Oh, Signore!
Mi dovevate chiamare proprio adesso, con questo favonio che accende mezzo mondo!
Chi me l’avrebbe mai detto di fare il Protettore di questi scansafatiche che si svegliano solo a Carnevale o al rimbombo del cannone quando arriva la Festa grande? Dico io: non potevo essere, che so, Sant’Antonio? Quello prende voti anche adesso che i Partiti non ci lasciano nemmeno una scorza! [nel senso che si pappano tutto, o che fanno incetta di voti-ndr]
Non potevo essere San Gennaro? Costui è pieno a denari! Ogni volta che fa azzeccare terni, quaterne e cinquine, come minimo guadagna una catenina [una collanina d’oro-ndr]! Non potevo essere San Domenico? A quello che Chiesa e che Palazzo avete fatto! [attualmente sede del Comune-ndr]
E dietro la processione mia? Soltanto quattro gatti…
Io, povero Cristo, in groppa a questo cavallo matto, piantato dentro il Comune [nel Golfalone municipale-ndr] a guardare certe facce..
Eh, ma adesso non ce la faccio (più). Ve ne siete dimenticati che sono rimasto con un solo braccio? [il Vescovo San Lorenzo Maiorano, sul cavallo bianco, nell’atto di attraversare un ponte (Siponto) sotto cui emerge un drago, è raffigurato di profilo, e perciò si vede un solo braccio-ndr]
Ah, chi lo avrebbe mai detto che dovevo fare il Patrono di questo Popolo infame e traditore, che da tanti anni va dicendo che io sia “amante dei forestieri”, solo perché qualcuno non ha trovato [qui a Manfredonia-ndr] una fidanzata o un mestiere adeguato! [come invece è avvenuto per quelli più intraprendenti-ndr]
La volete capire che io sono solo un Santo, un povero Santo che vi benedice, bene o male, tutti quanti?
Che è giusto nella misura, nella qualità e nella quantità richiesta, o prevista, o necessaria.
L’espressione zìcche-zìcche si indica la giustezza della misura. Una cosa fatta a misura, proprio giusta, senza eccedere.
Te vanne böne ‘sti scarpe? Si’, me vanne zicche-zicche! = Ti vanno bene queste scarpe? Sì, mi vanno giuste giuste.
La locuzione zicche tànne! significa = Proprio allora, giusto in quel momento.
Màmme menatte ‘u chjianjille, e me pegghjàtte zìcche ‘mbrònde = Mia madre mi lancio una ciabatta e mi colpì proprio in mezzo alla fronte.
L’amico Matteo Borgia – cui va il mio ringraziamento – mi suggerisce che: «l’etimologia di zícche è derivata da azzeccare, nel suo significato di colpire nel punto giusto ma anche di accostare, far combaciare in maniera precisa. Zícche zícche è un raddoppiamento rafforzativo.»
Va bene anche scritto Ziazüje o ziazïje perché omofoni). Si individuavano con questo termine, un po’ dispregiativo, quei fedeli che passavano per Manfredonia diretti al Santuario di San Michele di Monte Sant’Angelo.
La consuetudine del pellegrinaggio risale al Medioevo. Dopo l’anno 1000 erano quattro i luoghi sacri per eccellenza ove si riversavano i pellegrini: Gerusalemme, Roma, Santiago di Compostela e Monte Sant’Angelo.
Si muovevano in quell’epoca principalmente a piedi. Nel Novecento invece giungevano con carretti trainati da cavalli e coperti da teloni.
Anche nel Tavoliere transitavano questi pellegrini. Ho letto sul vocabolario di Cerignola: «Ziazije s.f. pl. Donne che insieme ad altri pellegrini, a piedi e in fila indiana si recavano dai comuni del barese al Santuario dell’Incoronata, attraversando Cerignola.»
Anche a Bari usano questo termine per designare i pellegrini diretti alla Basilica di San Nicola.
Il mio amico Matteo Borgia asserisce:
«Un termine dall’etimo incerto, di origine onomatopeica. Secondo alcuni linguisti, deriverebbe da una litania (cantata dai pellegrini), il cui suono, giungendo da lontano, ricordava vagamente un ronzio.
Una fonte da me sentita anni fa, a Bari, mi diceva che erano così chiamati perché i pellegrini stranieri, provenienti dall’Oriente, quando venivano interpellati dalla gente locale, non conoscendo la lingua, rispondevano meccanicamente con una sorta di “Sia! Sia!”, forse forma contratta di “così sia!”.
Altri ancora attribuiscono il termine al fatto che i pellegrini erano così sporchi e poveri, che il popolino in maniera un po’ razzista diceva che gli ronzavano intorno gli insetti.»
Io li ricordo bene, con i loro cavalli adornati di piume di galletto colorate di giallo, violetto, blu e rosso. La tappa nella nostra città era obbligatoria prima dell’ultimo tratto per Monte.
Arrivavano a carovane, come i pionieri del Far West e pernottavano nelle taverne, ove trovavano rifugio uomini e cavalli.
‘I vì, stanne arrevanne i zja-züje = Eccoli, stanno arrivando i forestieri.
Fino agli inizi degli anni anni ’60 si muovevano ancora con i carretti. Poi sono arrivati i giovani con le biciclette da corsa, anch’esse con le piume colorate fissate alla forcella, al manubrio, allo zaino, al cappellino da ciclista.
Con l’espandersi dei mezzi di trasporto a motore non li abbiamo più visti, perché in un solo giorno riescono a venire anche dal Salento e a ritornarsene ai loro paesini di tutta la bassa Puglia.
I più tradizionalisti hanno continuato ad apporre le penne colorate anche sulle automobili, almeno fino agli anni ’60.
Un giochino con i bimbi della prima infanzia. Negli ulti anni si è spogliato della veste locale ed ha indossato i panni delle altre regioni trasformandosi in Cucù?…Bah!. In altre parti d’Italia dicono Bu-bù?…Sèttete!, oppure Cu-cù?…setté!.
Ci si pone di fronte al frugoletto, si nasconde il viso con le mani e si chiede Zia-jó?, come per dire, dove sono ansato a finire? Il bambolotto rimane sicuramente perplesso vedendo sparire il volto conosciuto dietro le mani. Dopo un attimo, si tolgono le mani e si mostra il volto sorridente esclamando un bel: Bah!. Il fanciullino trova divertente questo fatto di veder ricomparire la faccia conosciuta, e ride compiaciuto per la sorpresa.
Non credo Zia-jó abbia un significato preciso. Ritendo che l’effetto piacevole per il pupo sia causato dal contrasto fra il suono cupo della ó chiusa (Zia-jó?) legato al nascondimento della faccia, e la squillante vocale aperta à (Bah!) pronunciata al suo rassicurante riapparire.
Ringrazio la lettrice Pasquina Vairo che mi ha fornito questo magnifico spunto.