Categoria: V

Vìnghje

Vìnghje s.m. = Vinco, virgulto, vimine, vermena.

Si può chiamare anche ‘u vìgne e u vignetjille, o vìnghjetjille.

Ramoscello giovane, flessibile, di ulivo defogliato o di salice, o di altra pianta legnosa. Opportunamente intrecciato dà forma a panieri, canestri, rivestimenti di damigiana. All’occorrenza, anche per dare una scudisciata nelle gambe del cane per scacciarlo, o dell’asino per incitarlo, certi di non arrecare troppo dolore nelle bestie.

Da “vinco” deriva il termine un po’ misterioso di vincastro, ascoltato nel Salmo 23, inteso in senso protettivo riferito al Buon Pastore.
Infattii il vincastro è un ramo di salice da vimini (salix viminalis) utilizzato principalmente dal pastore per guidare il gregge, ma anche per allontanare dalle pecore animali come cani randagi o lupi.

In italiano si può tradurre, quando specificamente ‘u vìnghje è di olivo, anche con succhione o pollone.

Una volta un giovane agronomo di Manfredonia, chiamato per una consulenza, volle mettere alla prova un olivicultore di Macchia, e gli chiese attraversando con lui il suo uliveto:
– Cosa sono questi?
Il brav’uomo li chiamò come aveva sempre fatto: – ‘i lüpe!
-No! – rispose il saputello – questi sono i succhioni!
L’arguto vecchietto rispose: Sì, ma pe’ mè so sèmbe ‘i lüpe!

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Vìrze

Vìrze s.m. = Verro

Maiale, robusto, sano, destinato alla riproduzione.

Con lo stesso termine i cacciatori indicano il maschio del cinghiale.

Figuratamente vìrze è detto il giovanotto aitante (“aiutante”, come direbbe Totò), ben dotato, e molto sensibile verso l’altro sesso. Talora è definito vìrze anche solo la sua appendice anatomica, efficiente come quella del porco da monta.

Sono i bollenti spiriti della verde età, gli ormoni in sovrannumero, che causano questa naturale eccitabilità giovanile.

Altri soggetti, avanti con gli anni, ricorrono ad artifici (pillolette blu o a polverine bianche) ed ingaggiano le escort per i loro incontri bungheschi. Scusate il neologismo.

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Vìste e nen vìste

Vìste e nen vìste loc.avv. = Fugacemente, velocemente, rapidamente.

Quiesta locuzione avverbiale spesso è riferita a una persona che si intrattiene per poco tempo e poi sparisce dalla cerchia.

Mattöje jì’ venüte a lecènze: viste e nen viste = Mattera è venuto in licenza: si è solo intravisto un momento, e poi è ripartito.

Si riferisce anche anche a certe sparizioni prodigiose: ad esempio, ai dolcetti posti su un vassoio in mezzo al tavolo e letteralmente presi d’assalto dai convitati, i pasticcini vengono divorati da quei bontemponi in un lampo: ora li vedi e ora non più. Visti e spariti.

Agghje mìsse ‘na guandjire de pàste söpe ‘a tavele: ànne fatte viste e nen viste. = Ho posto un vassoio di dolcetti supra il tavolo: in un attimo si sono volatilizzati

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Vjinde

Vjinde s.m. = Vento

Spostamento di masse d’aria per differenze di temperatura e di pressione che si determinano fra una zona e l’altra dell’atmosfera.

Per dire che il vento soffia, si usano i verbi vutté = spingere, mené = menare, teré = tirare.

Jògge votte ‘u vjinde = Oggi soffia il vento

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Voccapjirte

Voccapjirte agg.s.m. = Ciarlone

Al femminile dicesi voccapèrte.

Alla lettera significa “dalla bocca aperta”.

L’aggettivo si riferisce a persona che non sa tenere un segreto, o che parla sempre e a vanvera.

Che è inaffidabile, che non merita fiducia. Anche cialtrone: parla e parla ma non conclude mai niente.

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Vöche

Vöche s.f. = Gonfiore

Ponfo: Lesione dermatologica rappresentata da un rigonfiamento cutaneo tondeggiante e liscio, di colore rosso o bianco, con alone eritematoso e pruriginoso, tipica di varie forme di orticaria.

Gli antichi attribuivano questi rigonfiamenti ad intasamenti ghiandolari causati da emozione, spavento, gioia, ecc.

Accrescitivo: vecüne grossi ponfi.

Tenghe ‘i càrne vecüne vecüne p’u škande = Ho l’organismo pieno di ponfi a causa dello spavento preso.

Viene chiamata vöche anche il melasma (o cloasma) = gruppo di macchie irregolari giallo-brune che compare sulla pelle del viso delle donne in gravidanza o in seguito a disturbi ovarici.

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Vònghele

Vònghele s.m. s.f. = Baccello; Vongola

1) Vònghele (almaschile) =  Baccello di fava (Vicia faba).

In primavera le fave contenute in questo baccello si mangiano fresche assieme al pane e al formaggio pecorino. Una delizia mediterranea.
Il baccello, una volta seccato, si scarta facilmente lasciando liberi i semi di fava, che si conservano a lungo come gli altri legumi.
Il singolare ‘nu vònghele suona con la ‘ò’ larga, mentre al plurale va pronunciata con la ‘ó’ stretta: ‘i vónghele, o anche ‘i féfe de vónghele le fave in baccello.
Il prof. Michele Ciliberti – cui va il mio ringraziamento – mi fornisce l’etimologia di vònghele:
“deriva dal latino concula che significa “piccola conchiglia”;   per indicare il baccello di fava il tardo latino utilizzava il termine conculum al maschile o al neutro, forse come contrazione di conclusum, cioè baccello “chiuso”.

2) Vònghele (al femminile). = vongola

Si tratta della famosa vongola verace (Tapes decussatus), apprezzatissima per il sapore e per il profumo intenso che dà all’intingolo usato per condire i famosi spaghetti alle vongole.
In questo caso vònghele viene pronunciato, al singolare e al plurale, alla stessa maniera, con la ò larga.
Quelle che compriamo sulle bancarelle, di allevamento, provengono quasi esclusivamente Chioggia e dalla laguna veneta: le nostrane sono scomparse forse perché nessuno le va più a raccogliere per la scarsa redditività.

Ho sentito dire da una persona anziana che anticamente le vongole erano chiamate ” ‘i còzzele bònghele” = le cozze vongole (per la solita mutazione della ‘b’ in ‘v’ e viceversa di derivazione spagnola, come il classico esempio di vàrve per barba).

Le  vongole comuni (Chamelea gallina), sprovviste di sifoni specifici delle vongole veraci, sono dette in manfredoniano ‘i lupüne = i lupini. Ugualmente buone per preparare intingoli profumatissimi.
In Romagna le chiamano poveràss = poveracce, forse perché, per dimensioni,  sfigurano davanti alle loro consimili, quelle veraci, più dotate e più tenere.

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Vöpe

 Vöpe  s.f. = Boga

Piccolo pesce di mare commestibile della famiglia degli Sparidi (Boops boops) con tre fasce longitudinali dorate sul dorso argenteo, comune nel Mediterraneo.

Conosciuto comunemente come Opa in Sicilia, come Boba in Romagna e Vopa in Puglia, Campania e Calabria.

Viene considerato un pesce di scarso pregio, ma vi assicuro che è delizioso sia fritto sia nella zuppa.  Unico requisito richiesto per passare tutti gli esami: la estrema freschezza.

Le boghe più piccole sono chiamate vuparèlle.

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Vótta-vótte

Vótta-vótte s.m. = Pigia-pigia, ressa, calca, affollamento.

Come variante si usa spesso la locuzione: «vótta tó e vòtte jü.» = spingi tu e spingo io. Una autentica rappresentazione sceneggiata del movimento della massa.

In tempi di Coviid19 è assolutamente sconsigliabile cacciarsi in situazioni di assembramento!

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Vótte Sabbèlle! 

Vótte Sabbèlle! loc.id. = Forza, dài, coraggio.

È certamente un incitamento, incoraggiamento, un’esortazione, ma perché usare un nome proprio?

Vado per similitudini: “Gratte, gratte Marianne! Cchiù gratte e cchiù guadagne“. Era il grido del venditore di granite ottenute raspando con una specie di pialletta un blocco di ghiaccio (detto ‘u cannùle). L’imbonitore incoraggiava sua moglie di nome Marianna. Da lì è rimasto nel dialetto il termine Grattamarianne = Granita.

Quindi potrebbe essere anche questo “grido” una sollecitazione, un pungolo usato una prima volta verso una certa Isabella, e poi ripetuto e tramandato, dimenticandoci chi era costei, e in quale occasione fu pronunciato questa esortazione.

Adesso, si dice: “Mèh, jé, spicciàmece, dàmece da fé!” = Dài, su…forza sbrighiamoci, diamoci da fare.

I Napoletani dicono: Uagliù, vuttate ‘e mmane! = Ragazzi, muovete le mani, non state in ozio.

Ringrazio Tonia Trimigno per avermiricordato questa colorita espressione.
Chiederò conferma ai miei informatori, che sono più anziani di me.

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