Categoria: S

Sguìnge (de)

Sguinge loc.id. = Sbieco, sghembo.

Accettabile anche la dizione de sguìnce.
Voce derivata dallo spagnolo esguince = stortura, distorsione.

La lingua italiana è ricchissima di sinonimi:
“obliquo, diagonale, trasversale, sbieco, sghimbescio, trasversale, fuori squadra, fuori sesto, sbilenco, di traverso”.

Insomma qualcosa che non segue l’ordinamento verticale/orizzontale ritenuto più idoneo o confacente (lavoro a maglia, aratura dei campi, ricamo, taglio di tessuto, tracciatura di percorso stradale, ecc.), ma va di traverso, in diagonale.

‘Stu müre ce ne vé de sguince = questa parete è fuori squadra (non è ad angolo retto).

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Sgutte

Sgutte s.m. = Avvallamento

Infossamento, incavo del terreno, sconnessione della pavimentazione, che causa squilibrio all’andamento dei pedoni o dei ciclisti.

Il termine è usato indifferentemente anche al femminile. In questo caso suona sgòtte s.f.

Contrario, nel senso che invece dell’avvallamento si tratta di una sporgenza: ndrùppeche.

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Sgutté

Sgutté v.t. = svuotare

Specificamente significa svuotare dall’acqua il fondo di una barca, di un recipiente, di una pozzanghera.

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Siccardüne

Siccardüne agg. = Segaligno, smilzo, mingherlino, scarno.

L’aggettivo si usa soltanto nella descrizione di una PERSONA di corporatura esile. Si pronuncia anche seccardüne.

Non si dice ‘n’àreve siccardüne = un albero esile… Ma un ragazzo, un anziano una signora seccardüne, sì, specie se lo si evidenzia per distinguerlo dagli altri.
Derfiva da sìcche = secco, asciutto, nel senso di pelle e ossa,senza un filo di grasso.

Canuscjüte a Mattöje Ciucchetèlle? Códdu giòvene siccardüne ca venöve a sciuppé i féve a Fundéna Röse? = Conoscete Matteo detto Ciucchetèlle? Parlo di quel giovine che veniva ad estirpare le piante secche di fave a Fonte Rosa?

Ecco, seccardüne, magrolino, per distinguerlo dagli altri giovani presenti quella volta nello stesso luogo.

Si dice anche sìcche-sìcche = smilzo, e al femm. sècca-sècche = esile.
Ho sentito anche un epiteto molto simpatico: pülesìcche = magro come un pelo,

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Sìcce

Sìcce s.f. = Seppia

Seppia (Sepia officinalis ). Mollusco cefalopode con il corpo è ovale, circondato da una pinna a nastro.

Ha i consueti otto tentacoli dei cefalopodi e in più due tentacoli lunghissimi, retrattili, con il terminale provvisto di ventose.

Si mimetizza con rapide variazioni di colore al suo dorso e usa lanciare un inchiostro nero contro i predatori per sfuggire e mettersi in salvo.

È egregiamente e largamente usata nella gastronomia locale. Viene servita in croccante frittura, o arrostita alla brace, o ripiena sia al forno e sia  al ragù.

La seppia è un po’ il simbolo di Manfredonia/Siponto.

Il nome Sipontum deriva proprio da sipus (seppia) + pontum (mare) quindi “mare pieno di seppie” (grazie giolabe per il suo suggerimento).

Ora andate a vedere il Monumenti ai Caduti davanti al Castello, realizzato dallo scultore foggiano Baniamino Natola (1887-1972).

Se guardate bene in basso a destra della Vittoria Alata, noterete una seppia mentre tiene chiusa con i suoi tentacoli la bocca di un delfino.

La seppia simboleggia il popolo sipontino, mentre il delfino, l’Impero Austro-Ungarico. L’allegoria vuole esaltare il valore dei nostri ragazzi i quali,  nella Grande Guerra 1915-1918, con il loro eroismo, sono stati capaci di tacitare il grande Impero Centrale. Questo fu il grande contributo che Manfredonia diede alla Patria: 126 morti, 37 invalidi e mutilati, 12 medaglie d’argento,14 medaglie di bronzo.
La colonna di marmo inserita nel Monumento è stata prelevata tra le rovine dell’antica Siponto e posta a perenne memoria di quanti per la Patria si sacrificarono.

Queste notizie “storiche” mi furono tramandate da mio padre, classe 1901, che certamente assistette all’inaugurazione del Monumenti ai Caduti pochi anni dopo la fine della Grande Guerra, e seppe memorizzare i roboanti discorsi del regime fascista: lui era giovane e la memoria non gli mancava.

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Siccia vescéte

Siccia vescete loc.id. = Seppia corrosa da parassiti.

Questa locuzione è una esclamazione forte, un’invettiva, un’ingiuria, un improperio.

Come dire che la persona destinataria dll’improperio è marcia, fradicia intellettualmente, proprio come appare una trave o una seppia rosicchiate da parassiti.

Sta siccia vescéte!Quedda siccia vescéte!

Si dice apostrofando una ragazza che non è buona a niente, da sconsigliare al proprio figlio. Non buona per la casa, non buona a fare i figli. (definizione del dott.Enzo Renato).

SEPPIA “VESCIATA”, ovvero svuotata dalle vèsce = Teredini (Teredo navalis) o dai vermi anisakis.

Anche il legno delle barche, attaccato da parassiti, si dice che è veššéte (è meglio scritto così?), ossia svuotato, friabile, percorso da gallerie scavate dal parassita xilofago (mangiatore di legno, detto anche in dialetto mànge-e-chéche). Le barche ora sono protette dal loro attacco con oli e vernici, ma le seppie no!

 

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Sìgge

Sìgge v.t. = Riscuotere

Incassare una somma di denaro che è dovuta, per la vendita di un oggetto o per la prestazione di lavoro.

Quann’jì c’ha da sìgge? = Quando devi riscuotere?

Damme i robbe, ca quanne marìteme sìgge te vènghe a pajé = Consegnami le stoffe, ché quando mio marito riscuote (il salario) ti vengo a pagare.

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Singatüre

Singatüre s.m. = Graffietto.

Il graffietto è un attrezzo dotato di una punta metallica per fare incisioni e solchi poco profondi su legno, metallo, pietra e sim.

In pratica è una barretta di ferro di circa 20 cm, con un lato terminante a punta e con l’altro ad occhiello.

Il nome dialettale viene da sìnghe = Linea, graffio.

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Sìnghe

Sìnghe s.m. = Segno, linea

Segno lineare che viene tracciato con un grosso lapis o con un graffietto o col pennarello, per marcare, per esempio, il punto dove un oggetto va tagliato.

È anche quello tracciato col carboncino sul marciapiede del il gioco della vènghe.

Il verbo relativo è singhié = rigare, graffiare, tracciare

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Škafaröje

Škafaröje (o šcafaröje)s.f. = Lemmo, vaso, contenitore.


Era un vaso in terracotta, grezzo all’esterno ma smaltato e vetrificato all’interno. Aveva la forma di tronco di cono rovesciato, con la base più stretta, che si allarga verso l’alto, con il bordo superiore a risvolto ingrossato per una facile presa.

Il nome deriva dal greco “Scaphe” che si traduce in vaso, tinozza. Anche il latino ha adottato il greco. Infatti si indicavano “scaphat” i vasi in terracotta. 
In Sicilia è chiamata scafarìa.
La parte interna smaltata (apprezzata dalle nostre nonne perché facilmente lavabile) aveva le pareti e il fondo color pistacchio sul quale irregolarmente presentava delle striature a reticolo color verde bottiglia.

Era usata generalmente per contenere alimenti, per lavare le verdure, per salare le olive, per contenere la passata di pomodori, per conservare ortaggi nell’aceto (lambascioni, peperoni, ecc.) e anche per mettere i panni a bagno con la varichina, o per un mini bucato a mano.

La škafaröje standard aveva il diametro superiore di circa 60 cm. Quella di minore dimensione lo aveva  di circa 30 cm; e serviva principalmente a pulire il pesce, e veniva chiamata con un melodioso diminutivo ‘a škafarjèlle.

Se disgraziatamente il recipiente si rompeva, si ricorreva all’arte dell’ambulante conza-pjàtte. Nell’immagine vedete una škafaröje riparata con dei “punti” di fil di ferro e sigillati con mastice bianco. 
Avete notato che ho usato i verbi al tempo passato. Infatti la plastica ha soppiantato completamente questi utilissimi contenitori.

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