Categoria: S

Sdrené

Sdrené v.t. = Sfiancare.

Stancare, affaticare eccessivamente, spossare, privare di ogni forza logorare, indebolire gravemente.

Deriva da reni (come l’italiano sfiancare deriva da fianchi): sfibrare, rompere (o rompersi) le reni dalla fatica.

‘A fatüje me sté sdrenànne = La fatica di sta sfibrando (fisicamente e logorando mentalmente).

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Sdröme

Sdröme s.f. = Tecnica di pesca.

L’abbiamo vista nei film di avventura: i pescatori percuotono il pelo dell’acqua con i remi o con appositi paletti, chiamati sdrumatüre, in modo da convogliare i pesci, spaventati dal rumore, verso una rete appostata sul loro tragitto.

Usata prevalentamente per catturare i cefali, ma andava bene anche per altre specie di pesci. Non credo che sia usata ancora ai nostri giorni.

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Sdrumatöre

Sdrumatöre s.m. = battitore (mar.)

Lo sdrumatöre (al plurale fa sdrumatüre). era un arnese da lavoro usato in passato per praticare uno specifico tipo di pesca, detto ´u sdröme, da noi pressocché scomparso, come ´a sciabbeche.

L´attrezzo era costituito da un´asta di legno di varia lunghezza (max 2 metri, ossia a seconda dell´altezza della murata dell´imbarcazione).
Ad una delle estremità della pertica veniva fissato un largo disco,  anche esso di legno.  L´altra estremità fungeva praticamente da manico.

L´attrezzo, impugnato dal marinaio, veniva manovrato dalla barca battendo il disco sul pelo dell´acqua. In aggiunta talvolta si batteva il mare anche con la pala dei remi.

Riporto la descrizione che, assieme alla foto, mi è stata fornita da Bruno Mondelli, cui va il mio sentito ringraziamento.

«Il rumore spaventava i pesci che, presi dal panico, fuggivano incuranti delle reti che erano state posizionate in precedenza attorno a loro, finendo inesorabilmente intrappolati dalle sottili maglie.»

Quello di far rumore per spaventare gli animali sulla terra ferma era usato in Africa nelle battute di caccia grossa. Per stanare e indirizzare le bestie  selvatiche (tigri, zebre, ecc.) verso il luogo di appostamento dei tiratori, si impiegavano decine di indigeni che avanzavano affiancati,  urlando e percuotendo tamburi o altro materiale sonoro.
Tuttora in uso in Sardegna per la caccia al cinghiale.

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Sdrumatüre

Sdrumatüre s.m. = Asta

Si tratta di un’asta particolare, usata per praticare la sdröme, una particolare tecnica di pesca, forse ora in disuso.

I pescatori percuotono il pelo dell’acqua con questo sdrumatüre per convogliare i pesci verso la rete appostata sul loro tragitto.

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Sdrumé

Sdrumé v.t. = Praticare un particolare tipo di pesca.

Si tratta della sdröme, che si pratica usando appositi paletti chiamati ‘i sdrumatüre.

Süme jüte a sdrumé ‘i cjifele = Siamo andati a ‘battere’ i cefali

Beh non ho detto nulla che possa illuminare coloro che non sono dell’ambiente marinaresco…

Cliccate sulle voci sopra nominate.

Ringrazio il Prof.Castriotta per il suggerimento di sdrumé, sdröme e sdrumatüre.

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Sduaché

Sduaché v.t. = Svuotare

Svuotare, rovesciare, simile per significato a spasé, ma può essere riferito anche a persone che dopo una grande fatica o una lunga corsa, si buttano a terra per la spossatezza.

Uagnü’, sduacàmece ‘ndèrre! = Raga’ buttiamoci per terra!

Vrejògne, ve süte sduachéte ‘na butt’gghje de vüne! = Vergogna, vi siete scolata una bottiglia di vino.

Il verbo proviene dal latino devacare [svuotare]

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Se Ddia völe…

Se Dio vuole loc.id. = Se Dio lo vorrà

Questa locuzione veniva spesso pronunciata quando si voleva esprimere, sempre proiettato nel futuro, più o meno lontano, un progetto, un’idea, un sogno, una mira, e si confidava nell’aiuto del Signore per la loro realizzazione, e non troppo sulle proprie forze.

Specie in tempi precari, la mano di Dio era più invocata per raggiungere un obiettivo, soddisfare un’aspirazione o un’attesa.

Non si diceva mai, ad esempio: “Caremöle ce spöse all’anne che vöne “ senza aggiungere subito “Se Ddia völe!” = Carmela si sposerà l’anno venturo, se Dio vorrà. Del doman non v’è certezza…

Variante. La locuzione viene arricchita, in modo ironico, quando non c’è risposta da parte di qlc da cui ci si aspetta un favore, o si conosce bene la sua inaffidabilità: Se Ddia völe e quìnece! . Alla lettera significa= Se Dio vorrà, e quindici…

L’origine di questa aggiunta numerale fa pensare ad una ulteriore proproga ad un precedente rinvio, se non a un rinvio perenne.

Jògge ca tòrne dalla cambagne, t’àgghja purté quìddi pepedìgne.
Sì, se Ddia völe e quinece!

– Oggi, quando torno dalla campagna, ti devo portare quei peperoni (che ti avevo promesso)
– Sì, va bene, proprio così, li aspetto… Ovviamente questa risposta è pronunciata con voce ironica e canzonatoria per esprimere sfiducia sul mantenimento della promessa.

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Sebbeletüre

Sebbeletüre s.m. = Sepoltura intesa come sepolcro, tomba, loculo..

Anticamente capitava che da un sepolcro non perfettamente sigillato provenisse il fetore dei cadaveri in decomposizione.

Allora sebbeletüre diventava un termine di paragone per indicare un miasma insopportabile:
Allà jìnde föte accüme a ‘nu sebbeletüre = Là dentro puzza come un sepolcro.

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Sebbóleche

Sebbóleche s.m. = Altare della reposizione

Riporto quanto spiega la preziosa Wikipedia:

“Altare della reposizione è il luogo in cui, nella liturgia cattolica, viene riposta e conservata l’Eucaristia al termine della celebrazione eucaristica del Giovedì Santo, la Messa in Coena Domini.

La Chiesa chiede che l’altare della reposizione non coincida con l’altare dove si celebra l’Eucaristia. È inoltre tradizione che nelle chiese l’altare della reposizione sia addobbati in modo solenne, con composizioni floreali o altri simboli, in omaggio all’Eucaristia che viene conservata per poter permettere la Comunione nel giorno seguente, il Venerdì Santo, ai fedeli che partecipano alla Azione liturgica della Passione del Signore; infatti il Venerdì Santo non si offre il Sacrificio della Messa, e dunque non si consacra l’Eucaristia. Inoltre la reposizione dell’Eucaristia si compie per invitare i fedeli all’adorazione nella notte tra giovedì e Venerdì Santo, in ricordo dell’istituzione di un mistero così grande e nella meditazione delle sofferenze della Passione di Cristo.

L’altare della reposizione rimane allestito fino al pomeriggio del Venerdì Santo, quando, durante la celebrazione della Passione del Signore, l’Eucaristia viene distribuita ai fedeli; se le ostie consacrate non sono state consumate interamente, esse vengono conservate non in chiesa ma in un luogo appartato, e l’altare viene dismesso, per ricordare con austerità la morte in croce di Gesù, fino al giorno seguente, quando durante la Veglia pasquale si celebra la risurrezione di Gesù.

Nella tradizione e nel linguaggio popolare gli altari della reposizione vengono comunemente chiamati “Sepolcri”. Tale terminologia è impropria, perché in essi viene riposta l’Eucaristia che la Chiesa cattolica crede essere il segno sacramentale di Gesù Cristo vivo e risorto. L’altare della reposizione non è dunque un sepolcro che simboleggia la morte di Gesù, ma un luogo in cui adorare l’Eucaristia”.

Aggiungo che veseté ‘i sebbóleche è una tradizione antichissima, che porta i fedeli a girare per diverse chiese.
Una semi-superstizione “obbliga” a visitarne in numero dispari, chissà perché. Ritengo che basti una sola, se si pensa al significato del cosiddetto “sepolcro”, per pregare intimamente.

Quando eravamo giovincelli, irridendo il significato profondo del gesto, il giovadì Santo andavamo di chiesa in chiesa a “visitare i Sepolcri” non tanto per seguire Nostro Signore, ma… per seguire le donzelle. Era un po’ blasfemo, ma presumo che a 19 anni il cervello non è proprio maturo….Parlo per me, naturalmente! Difatti all’epoca mia, la maggiore età arrivava solo al 21° anno.

J’ vesetànne ‘i sebbóleche = andare per visitare i sepolcri, è detto ironicamente quando qlcu, malvolentieri, deve fare un giro di visite di cortesia ai propri parenti.

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Secchelènze

Secchelénze s.f. = Scarsità, mancanza, carestia

Deriva da secco, scarso, inaridito, non abbondante, anche in senso figurato.

Nel napoletano usano una parola simile: sechenenze, o sichinenza.

Ho scoperto, leggendo qua e là [Fonte: Enciclopedia Treccani, Accademia della Crusca], che è una deformazione dell’espressione appresa dai napoletani ascoltando i soldati americani nel corso della seconda guerra mondiale: second hands = di seconda mano, di scarso valore.
Il suono veloce “sicon(d)enz” è stato storpiato dai nativi che non sapevano una sola parola di inglese e l’hanno fatto propria (come shoe shine [pronuncia sció-sciàine] diventata “sciuscià”= lustrascarpe) e forse divulgata nelle regioni vicine..

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