Tipo di peperone verde, dritto, piuttosto allungato, terminante a punta, non è piccante.
Si usa prevalentemente arrostito, spellato, diviso a listerelle, e condito con abbondantissimo olio, aglio e sale.
Talora un pezzo di questo peperone arricchisce ulteriormente di profumo la nostra ciambotta.
Quelli gialli rossi e verdi di serra, sono sì più carnosi, ma non hanno il sapore degli sciabolotti.
Penso che il nome sciabbelòtte significhi sciaboletta: infatti il peperone, impugnato dalla parte del peduncolo, in mano a un marmocchio sembra uno spadino o una piccola sciabola.
Brodo troppo acquoso, insipido, per niente invitante.
Quando qlcu si imbatte malauguratamente davanti a un piatto non troppo appetitoso, specie se brodoso, e senza formaggio, come accade quando si è ricoverati in uno di quegli ospedali di terza categoria, si confida con il/la suo/a vicino/a di letto: e che jì ‘stu sciacquapecciöne? = ma che è questo liquido? È buono, solo perché tiepido, a fare le abluzioni nelle parti intime.
Ringrazio Sator per il suo prezoso suggerimento (del termine, non di fare le abluzioni…).
Specificamente si riferisce a uova “scadute”, ossia deposte da molto tempo, riconoscibili dal rumore acquoso che emettono agitandole energicamente, come quando si sciacqua una bottiglia.
Forse il fatto delle uova “sciacque” deriva proprio da questa empirica azione di controllo che le nostre nonne eseguivano prima di acquistarle.
Luciè, nen me dànne l’öve sciàcque! = Lucietta, non mi vendere le uova scadute!
Persona dall’aspetto trascurato, trasandato, disordinato. Spec. se si tratta di individuo di sesso femminile, su cui appare ancora più evidente la trascuratezza (pulizia carente, pettinatura scarmigliata e abbigliamento sbracato…puah).
Mariè, aggióstete ‘mi pöche: ‘u vüte ca assemìgghje a ‘na sciaddöje? = Maria, rassettati un po’: lo vedi che sembri una persona trasandata?
Al plurale femminile è invariato, ma al plurale maschile fa sciaddüje.
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Ho letto da qualche parte che è usato anche in Campania: «Donna inconcludente, senza spessore, sbandata e anche sciatta e non curata…..dovrebbe venirci dal greco SKEDAO con lo stesso significato» …diventa poi SCIADDEA poi SCIARDEA”
Spendaccione, sciupone, sperperatore, dilapidatore di patrimonio, prodigo fino a ridursi sul lastrico,“de cule,ndèrre, cioè de cule a chiapparüne” = di culo per terra, ossia di culo ai capperi.
Chiaramente a questo punto i compagni di bagordi si sono tutti dileguati….
La parabola evangelica del Figluol prodigo addita proprio lo scialacquöne per eccellenza.
1 ) sciallètte = Lunga fascia di lana o di altro tessuto che si porta attorno al collo per ornarsi o per ripararsi dal freddo (Sabatini-Coletti). Una volta gli elegantoni la indossavano sotto il cappotto, in verticale dal collo in giù, senza nemmeno iaccavallarne i lembi. Ora si indossa alla meno peggio, a mio avviso in modo molto rustico e anticonvenzionale, con un orribile nodo, improponibile negli anni della mia giovinezza.
2) sciallètte, detta anche acquaséla càvete (per distinguerla dall’acquaséla frèdde) e sciallètte de purtjàlle = intingolo molto semplice.
La sciallètte era usata per inzuppare, o meglio, per ammorbidire tozzi di pane duro e vecchio. Come companatico valeva ben poco.
Suggerito dalla carenza di mezzi, consisteva in un mestolo di acqua, calda e condita con sale, che si versava in un piatto dentro cui era stato in precedenza spezzettato del pane molto raffermo e due fettine di arancia. Un filo, ma proprio un filo, di olio di oliva completava l’inusuale portata, che d’inverno rappresentava una vera e propria cena molto povera, in mancanza di altro.
Se questa sciallètte era monotonamente servita ogni sera, veniva accolta e apostrofata come sciacquapecciöne.
In Basilicata è detta “cialledda”. Presumo che abbia origine dal francese chaleur, chaud = calore, caldo.
Ora grazie a Dio, qui da noi nessuno soffre più la fame come una volta. Il pane che ora avanza viene spesso buttato nella spazzatura, perché è ritenuto “immangiabile”….e noi della vecchia generazione son sopportiamo questo scempio.
Il termine acquaséla usato all’inizio significa ‘acqua e sale’. L’acquaséla fredde era la versione estiva della sciallètte, e si compiaceva di avere, oltre all’acqua e al sale, anche una cipolla affettata che sostituiva l’arancia (purtjàlle) ed era arricchita dal pomodoro fresco affettato. L’origano era del tutto facoltativo.
Taluni pronunciavano sciambrignöne. Come aggettivo generico si abbina a personaggio clochard, barbone, incline al vino e al turpiloquio. Vagabondo, mendico; persona sporca con qualche rotella fuori posto. Vive come gli capita, per scelta o per necessità.
Il fonema somiglia a qualche lemma di derivazione francese…chissà qual’è l’origine.
Quello nostrano, Matteo Vitale, conosciuto come Mattöje sciambregnöne (o semplicemente Fiascöne), si aggirava per le strade di Manfredonia, era un bonaccione, ma anche un formidabile lanciatore di sassi quando veniva dileggiato dai monelli, me compreso, con la canzoncina:
“Vöna vöne ‘u fiascöne, ‘u sciambregnöne! = Viene, arriva (con il suo) fiascone, l’ubriacone!” La risposta era violenta e immediata:‘A putténe de màmete! Ghjachiv’è murte e stramurte! ‘Gghjà lu peccjöne d’i putténe d’i mamme vostre! (preferisco non tradurre). E giù una gragnuola di sassate!
Raccattava i ciottoli da terra. I sassi erano reperibili numerosi per le strade, perché, tranne via Tribuna (chiamata “l’Asfalde” per antonomasia), Corso Roma, Corso Manfredi e le traverse, tutte le altre erano di terra battuta, quindi non erano lastricate né bitumate.
Spesso, mentre passava per la via canticchiava qualcosa sottovoce, come tra sé e sé. Se qualche donna lo punzecchiava, partiva con una canzoncina allusiva, sull’aria di “Quant’è bèllo lu prim’ammore”: “Vù sapì che tjine sotte? Tjine ‘u tóbbe de l’Acquedotte!” Se non veniva accolta con: “Vattì, vattinne, ca mò chiéme a marìteme!“, continuava imperterrito diventando sempre più scurrile.
A quei tempi, nell’immediato dopoguerra (anni 1946-50), si presentava ogni giorno dietro la porta del refettorio della Scuola De Sanctis, assieme ad alcune persone bisognose. Ognuno aveva la propria gavetta di alluminio, nelle quali le bidelle, dopo aver servito gli scolari, distribuivano la minestra rimasta in fondo ai pentoloni. A volte le inservienti elargivano anche dei pezzi di filoncino o qualche formaggino. Sciambregnöne si lamentava perché, commisurata alla sua fame atavica, gli sembrava scarso un solo mestolo di minestra… “Mìtte n’atu cuppüne!“ = aggiungi un altro mestolo!.
Per quanto fondamentalmente buono, incuteva comunque un po’ di inquietudine nei piccoli e nei grandi. Bisognava solo lasciarlo in pace, e non stuzzicarlo mai.
Ringrazio infinitamente Bruno Mondelli per avermi passato le foto originali di Matteo Losciale.