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Renacce

Renacce s.m. = Rinaccio


Si tratta di un lavoro donnesco consistente in un rammendo invisibile su un tessuto strappato o logorato.

Praticamente si ricostruiva mediante intrecci vari con ago e filo dello stesso colore la parte danneggiata di una camicia, un lenzuolo o di un tessuto qualsiasi.

Il rinaccio richiede molta abilità nell’esecuzione. Per ottenere un risultato apprezzabile occorre molta pazienza e lunga esperienza.

Mia madre, per lavori particolarmente impegnativi, si rivolgeva alla suore della Stella, le quali erano espertissime nell’eseguire – dietro un modesto compenso – i ricami su lenzuola, federe e tourne-lit, il rinaccio e anche il “punto a giorno”.

Il consumismo ha passato nel dimenticatoio questo antica attività domestica. Ora se un indumento mostra tracce di logorio semplicemente viene buttato nell’indifferenziato.

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Renéle

Renéle

Renéle s.m. = Orinale, pitale

Recipiente usato anticamente, quando non esisteva la rete fognante e ovviamente nemmeno il gabinetto, per raccogliere le minzioni notturne. Era detto in italiano pitale o vaso da notte.  Mio padre, nato all’inizio del 1900, lo chiamava esplicitamente  pisciatüre = pisciatoio, orinatoio.

Il sostantivo pisciatüre sembrava troppo rozzo, e si è modificato col tempo diventando ‘u renéle adeguandosi al termine italiano orinale.

Ricordo il grido del venditore ambulante con accento forestiero : Piatte fini, ‘o piattaro! ‘O rinale, ‘o vacile = Piatti fini, il piattaio, l’orinale, il bacile. Questi ultimi erano venduti quasi sempre insieme.

Forse le nuove generazioni non sospettano nemmeno l’utilità di questo oggetto nell’ assolvere degnamente per secoli i suoi compiti notturni.

Dopo lo svuotamento mattutino, il pitale veniva riposto nel vano del comodino, accuratamente nascosto dall’apposito sportellino.

Oggi lo usano i bambini, ha la forma di un animale domestico, e lo chiamano “vasino”.

Gli è sopravvissuto il termine “pisciatüre” per qualificare una persona o un oggetto di infimo valore.

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Rènghe

Rènghe (o arènghe)s.f. = Aringa

Pesce marino teleosteo (Clupea harengus ), dal dorso scuro e dal ventre argenteo o dorato, che vive nei mari freddi.

Ai consumatori giunge semi-secco, salato e affumicato. (Clicca sull’immagine per ingrandirla).

Il suo consumo in Italia è decisamente calato dalla fine degli anni ’50.

Fino ad allora spesso una sola aringa, divisa a tocchi, rappresentava la frugale cena invernale dell’intera famiglia.

Praticamente si mangiava pane e “odore” di aringa. Cioè un chilo di pane e una sola aringa di 200 gr da dividere per 6 o 7 persone. Tutto qui.

Erano apprezzate quelle femmine, perché al loro interno si trovavano, un po’ disseccate, le uova come un ammasso granuloso, formato da migliaia di granellini, anch’essi salatissimi e affumicati. Boccone prelibato perché privo di lische.

Non era consuetudine utilizzare le aringhe in cucina. Si mangiavano senza bisogno di cuocerle.

Al massimo si riscaldavano al fuoco del braciere per farle ammorbidire, per svilupparne gli aromi e facilitarne la spellatura.

Ce sènde ‘n’addöre de rènghe! = Si avverte un profumo di aringhe!

Le ho riviste dopo tanti anni sulle bancarelle dei mercati rionali. Ma adesso le comprano solo gli ultra sessantenni, per una volta soltanto, tanto per ricordare le “spezie antiche”.

L’ipertensione alla loro età sconsiglia i cibi salati.

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Rennetüre

Rennetüre s.m. = Montata lattea

L’ho sentita pronunciare spesso al femminile: ‘a rennetöre o ‘a renetöre.

La montata lattea è la funzione secretoria della ghiandola mammaria delle puerpere.
Quando le mammelle sono turgide, piene di latte, può accadere che spontaneamente ne fuoriesca un po’.

Allora bisogna attaccare subito il poppante al seno per non perdere nemmeno una goccia di quel preziosissimo nutrimento naturale per eccellenza.

L’allattamento al seno è molto raccomandato dai medici pediatri per l’accrescimento dei neonati.
Una volta le nostre nonne, quando non avevano latte a sufficienza, ricorrevano alle nutrici (nutrìzze). Amorevolmente si definivano ‘mamme di latte’. Il latte artificiale non era stato ancora messo in commercio.

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Rependüte

Rependüte s.f. = Vendetta

Per dire “vendicarsi” si usava la locuzione “Pigghjàrece ‘a rependüte” = prendersi la vendetta. Taluni dicevano anche solo pigghjàrece ‘a pendüte.

Il significato è chiaro,: io ho agito per vendetta contro qlcu che aveva in precedenza agito male nei miei riguardi; lui si è perciò pentito della sua azione a causa della mia più incisiva reazione vendicativa.

Se sentite dire ‘a vendètte vendecàrece, state di fronte a una forma italianizzata del dialetto.

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Requèste

Requèste s.f. = Riserva, scorta

L’accantonamento si riferisce specificamente ad alimenti acquistati in sovrabbondanza per futuri utilizzi.
Ovviamente si tratta di derrate non deperibili, come legumi secchi, riso, pasta, scatolame, biscotti, farina, caffè ed altro.

La brava massaia ne tiene sempre in casa a requèste, per ogni evenienza.

A requèste un cubetto di lievito o una busta di affettati in frigo si trova sempre!

Come in italiano il sostantivo si fa precedere da una preposizione semplice ( di riserva, per scorta, in accantonamento, a deposito, in aggiunta), così in dialetto si usa la preposizione “a”: a requèste.

Ricevo dal prof.Michele Ciliberti, che qui ringrazio pubblicamente, un prezioso suggerimento sull’origine del vocabolo:
«Etimologia: dal latino re-quæro da cui anche quæstus e quæstua, con il significato di ricerca, richiesta, affare, guadagno e commercio. Mettere da parte ciò di cui si ha bisogno».

 

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Rére-ascennènne

Rére-ascennènne loc.id. = A ritroso

È ammessa anche la forma contratta rére-scennènne.
Alcuni pronunciano anche rére e scennènne.

Andare indietro nella storia delle persone, risalendo di generazione in generazione.

Presumo che questo rére può aver affondato le sue radici in “rerum”.

Coloro i quali hanno studiato il latino, sanno che significa “delle cose”. Quindi: delle cose dei nostri avi, dei nostri ascendenti, arrivate fino a noi discendenti.

Profumo nostalgico di buone cose antiche.

Provate a pronunciare più volte questo termine: oltre che evocare i ritmi ciclici del tempo, sembra di pronunciare il verbo ridere e anche le labbra si distendono in un sorriso.

Io che sto spiegando questo termine antico, sto andando proprio rére-ascennènne

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Résa-rése

Résa-rése avv. = Rasente

A brevissima distanza da un luogo, da una persona o da un oggetto, quasi a sfiorarli, nel corso di un movimento, di un passaggio:in modo tanto vicino da sfiorare (qlcs. o qlcn.).

In linguaggio un po’ fanciullesco si dice anche rènza-rènze

Sòrte de vjinde! Camenàmme résa-rése ‘u müre = C’era un gran vento. Camminavamo rasente ilmuro.

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Resàcchje

Resàcchje s.m. = Rezzaglio (detto anche sparviero o giacchio)

Si tratta di una rete una rete da lancio, di antichissima origine, usata per pescare in mare o in acque dolci.

Fornita di piccoli piombi, una volta gettata si apre a ombrello, e scendendo verso il fondo si chiude a sacco.

Una volta sparso in acqua ‘u ciammjirre, (←clicca), una specie di mangime, si aspetta che si avvicinino le prede e si lancia ‘u resàcchje per catturarle.

Usato a riva dai pescatori dilettanti o da pescatori anziani che non posseggono battelli.

Risultato: quantitativi scarsi di pesci di piccola pezzatura.

(Foto da Amazon)
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Resepöne

Resepöne agg. = Avaro

Restio a spendere. sin. Tirchio, spilorcio, taccagno, parsimonioso.

Sinonimi:
Cacasìcche
Carucchjéne (o carucchjéle)
Chjìngre
(o chjìnghere)
Runghe
Ànema dannéte
Attacchéte alla rózzene
Scurtecöne
Nen mange pe nen caché
Vrazzolle
S
cugghje ca nen cacce lampe
Scurze
ecc.

La ricchezza linguistica fiorita su questo aggettivo, dimostra quanto abbia acceso la fantasia della gente la “mania” dell’avaro di accumulare denaro, di non spendere, di privarsi di tutto, ritenuta strana, incomprensibile.
Come anche quella del prodigo, dello scialacquöne.
È chiaro che in ogni cosa ci vuole misura.

L’amico Pasquale Stipo, che ringrazio di cuore, mi ha graziosamente fornito l’origine del termine resepöne:
«Deriva da Ruspone una moneta assai preziosa. Il “ruspo” era un fiorino o zecchino gigliato coniato nel 1719 a Firenze da Cosimo III, Granduca di Toscana, che riscosse molto successo. Era caratterizzato dai tipi del giglio fiorentino e di San Giovanni Battista, patrono di Firenze. Il pezzo d’oro da 3 zecchini si chiamava “ruspone”. Per via del valore, chi possedeva tale moneta, diventava “tirato di mano” quindi tirchio.»

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