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Pedòcchje

Pedòcchje s.m. = Pidocchio

Insetto parassita dell’uomo. Il pidocchio (Pediculus humanus capitis) è semitrasparente, di colore che varia dal bruno al bianco-grigio. Le uova (lèndini) sono biancastre translucide della dimensione di circa un millimetro.

Fortunatamente le condizioni igieniche ci consentono di liberarci di questi fastidiosi animali, del tutto scomparsi dal nostro territorio

Al plurale la ò di pedòcchje si pronuncia stretta, pedócchje

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Pegghjàrece velöne

Pegghjiàrece velöne loc.id. = Crucciarsi, affliggersi

Alla lettera Pegghjiàrece velöne si tradurrebbe “prendersi del veleno”. Si può dire pegghiàrece ‘na velenéte = prendersi una avvelenata.

Da noi velöne non significa solo veleno, ma anche cruccio, indignazione, afflizione.

Sdegnarsi, irritarsi per un evento o una circostanza sfavorevole.

A sente tanta zingramjinte me so pegghjéte ‘na velenéte = Nel sentire tante falsità mi sono molto amareggiato.
Meh, nen facènne pegghjé velöne a màmete = Beh, non fare amareggiare tua madre.
Quanne sente parlé de pulìteche me pìgghje ‘nu sacche de velöne = Quando sento parlare di politica mi assale una grossa indignazione.
Nen te pegghjànne velöne, ca nen jì njinte = Non ti affliggere, ché non è niente di grave..

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Pegghjé a cöre

Pegghjé a cöre Loc.id. = Prendersi cura di qlcn, proteggere, benvolere.

Una bella espressione.

Dare il massimo della propria disponibilità per sorreggere, confortare, aiutare qlcn.

Forse non si usa più – in questo mondo frenetico ed egoista – dedicare il proprio tempo ad aiutare gli altri.

Manca la gratuità del gesto, e pegghjé a cöre diventa “fare una raccomandazione” con tanto di tornaconto….
Ma questa è un’altra cosa.

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Pegghjé ad ùcchje

Pegghjé ad ùcchje loc.id. = Invidiare

Il verbo italiano che più si avvicina è invidiare, quantunque sia molto riduttivo rispetto al verbo usato nel dialetto.

L’invidia sordida è detta malùcchje, da cui deriva pegghjé ad ùcchje può nascere a nostra insaputa. Perciò i vecchi suggerivano di indossare sempre un oggetto contro questi influssi malefici: ‘u condra-malùcchje!

Ad esempio un corno di madreperla o di oro, una mandorla doppia, cioè unita naturalmente come i bimbi siamesi, il numero 13 incorniciato da un cerchio, ecc.

Se l’invidiato era maschietto e si accorgeva dell’occhiata strana dell’interlocutore, senza farsi notare si faceva una grattatina al suo cornetto naturale…

Altrimenti o di nascosto, o anche palesemente ostentando la mano con l’indice e il mignolo sollevati per neutralizzare l’nflusso maligno.

Per evitare di “prendere ad occhio” chicchessia, o quanto meno di mostrare la propria schiettezza, ogni volta che si pronuncia un complimento, anche ai giorni nostri, si accompagna con “benedüche“, ossia parlo, dico bene, senza invidia. Eh già, perché si può pegghjé ad ùcchje anche involontariamente, perché le forze del male agiscono a prescindere.

Cungettè, ma quand’jì bèlle, benedüche, ‘sta criatüre! = Concettina,ma com’è bella (senza invidia) la tua bimba

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Pegnéta püta-püte

Pegnéta püta-püte s.f. = Putipù o caccavella

Tecnicamente è classificato come uno strumento a percussione, più propriamente “tamburo a frizione”.

È quasi sempre di fattura artigianale, ed è formato da un vaso di terracotta, o anche di latta o di altro materiale, chiuso con una membrana di pelle tesa con un foro centrale, attraverso il quale è inserita una cannuccia.

Sfregando questa cannuccia, dall’alto verso il basso con la mano inumidita stretta a pugno, o con una spugnetta bagnata e strizzata, si ottiene un suono grave, umoristico, talora imbarazzante perché simile a uno scorreggione, che funge da contrabbasso nelle melodie popolari folkloristiche.

Tipico strumento, assieme al tamburello, delle tarantelle napoletane, conosciuto anche da noi fino agli anni ’40.

Ad una ‘A pegnéte püta-püte è paragonato un soggetto brontolone, che ha sempre da ridire, che parlotta anche quando è richiesto il silenzio:
Assemègghje ‘na pegnéte püta-püte = Sembra un putipù.

Nel Sud Italia assume diverse denominazioni regionali:
putipù, cupa-cupa, cupiello, caccavella, pernacchione, ecc.

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Pegnéte

Pegnéte s.f. = Pignatta

 La pegnéte ha due significati: uno è un laterizio, una specie di mattone forato usato in edilizia per armare i solai prima della gettata di calcestruzzo.

L’altro è un recipiente di terracotta, di varie dimensioni, dotata di manici, adoperata in passato per cuocere vivande. Ora si usa l’acciaio inox perché lavabile con più facilità.

La pignatta e usata tuttora in tutto il Sud Italia come gioco di Carnevale, non come strumento di cucina.

Da noi la prima Domenica di Quaresima viene detta da anni “La Pentolaccia” proprio da questo gioco antico “della Pignata”.

Si riempivano alcune pentole di terracotta con cenere, bucce di arancia e roba di scarto. Una sola di esse conteneva confetti e dolciumi. Quelli che erano estratti mediante una conta, venivano bendati e con un manico di scopa tentavano di colpire la pentola appesa al soffitto, una per volta. Prima quelle con scarti, e quella “buona” per ultima.

Ecco la descrizione del gioco in dialetto, inviatami dalla lettrice Mariella Prencipe (che qui ringrazio pubblicamente), la quale l’ha raccolta dalla sua mamma.

A Pegnéte

Pìgghje ‘na quartére
pe fé ‘na pegnéte,
ce mitte tanda cöse,
cumbìtte, curiàndele
chelöre de röse.

‘Mbacce a l’ucchje
pò mìtte ‘na pèzze,
strètta strètte
cüm’a ‘na capèzze.

Pe ‘na mazze
pò mjine li botte,
allu scüre
cüme la notte.

Se n’a ncugghje
te sjinte de fòtte,
ma s’a ncugghje
sóbbete fòrte,
tutta ‘a rròbbe
ce ne jèsse
e tu rumjine
cüme nu’ fèsse!

Prendi un orcio, per fare una pignatta, ci metti tante cose: confetti, coriandoli color di rosa. Sugli occhi ci metti una pezza stretta stretta come una cavezza. Con una mazza, poi tira i colpi al buio come la notte. Se non la centri ti senti di rabbia, ma le la prendi subito, forte, tutto il suo contenuto se ne esce, e tu rimani come un fesso!

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Pegnùle

Pegnùle s.m. = Strobilo (detto pigna, o cono)

Il sostantivo pegnùle indica il cono degli alberi di pino (Pinus pinea), chiamati appunto conifere.

Stranamente in dialetto non esiste un termine per indicarne la pianta come l’italiano Pino (Pino marittimo, Pino Loricato, Pino Silvestre, Pino Cembro o delle Alpi, ecc.).

Si ricorre alla locuzione l’àreve d’i pegnùle = albero delle pigne.

I pinoli si chiamano ‘i summènde d’i pegnùle = i semi delle pigne. Usati nell’industria dolciaria e nella preparazione del “Pesto alla Genovese”, un piatto ormai diffuso in tutta Italia.

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Péle

Péle s.m., s.f. = Palo, seme (di carte da gioco), pala

1) Péle s.m. = legno lungo, appuntito, che si conficca nel terreno, allo scopo di reggere una giovane pianta o sostenere una rete di recinzione, ecc.

2) Péle s.m. = ciascuno dei quattro “semi” o “colori” che contraddistinguono le carte da gioco. In quelle italiane sono: coppe, denari, spade, bastoni per indicare rispettivamente i beoni, i ricchi, i soldati di ventura e i malfattori (quattro categorie di uomini da prendere con le molle). Nelle carte dette “francesi” (o da poker, ormai universali, entrate anche nella nostra cultura) sono: cuori, quadri, fiori, picche.

3) Péle s.f. = pala, arnese da lavoro, formato da una lama d’acciaio fissata a un manico di legno. Viene adoperato per raccogliere ammucchiare terra, pietrisco, ecc. Quella con la lama di legno e il manico molto lungo è usata per porre e ritirare il pane dal forno.

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Pelòsce

Pelòsce s.f. = Pene fanciullesco

Uno dei tanti modi fanciulleschi di chiamare (con nome femminile) il pene dei maschietti. Ho già ricordato la cicjille, la cillòtte, la vucjille..

Stranamente l’apparato delle femminucce era chiamato con un termine maschile: ‘U pecciöne, ‘u cianne, ‘u pelósce, come la stoffa dal pelo lungo che in francese si dice pelouche.

Misteri linguistici!

Pelósce, al maschile, significa anche piumino da cipria

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Pelöse

Pelöse s.f. = Favollo

Si tratta di una specie di granchio più grande e robusto di quelli descritti alla voce “ràngeche”

Favollo (Eriphia verrucosa) appartiene alla famiglia delle Xanthidae. Si riconosce facilmente per le dimensioni, la forma robusta con le chele asimmetriche.

È particolare la dentellatura fine e frastagliata del bordo anteriore del carapace.

Viene catturato perché faccia da esca, legato vivo ad una pertica, per stanare i polpi in modo che il cacciatore possa arpionarli.

E pensare che per stanare la pelosa c’è voluto un pezzo di polpo!

Era noto un certo “Frìsche-Pàvele ‘i pelöse”, (Francesco-Paolo “le pelose”), un anziano ex pescatore che d’estate si aggirava per le scogliere dedicandosi alla cattura delle “pelose”. Ricordo anche che d’estate sotto il Castello di fronte allo Stabilimento di Titta c’era una persona che le vendeva ai bagnanti, già lessate e allineate sopra un piatto bianco.

A Vasto sono chiamati al maschile: i pelosi con cui condiscono, cotti nel sughetto di pomodorini, un tipo di pasta fatta in casa.

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