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Para-pàtte-e-péce

Para-pàtte-e-péce loc.id. = Impattare.

Locuzione per indicare che, nei rapporti di affari, di gioco, di dialogo, di controversia, le cose sono andate in parità.

In italiano si dice pareggio, pari, patta e anche insieme questi due ultimi termini, (pari e patta) a mo’ di rafforzativo.

Patta, deriva dal latino pax e pactum nel significato di accordo.

In dialetto aggiungiamo anche il terzo rafforzativo, caso mai non si fosse capito che si era pareggiato il conto: pace. Siamo un popolo pacifico.

Infatti a volte si dice, a suggello dell’accordo, come fosse una dichiarazione liberatoria: mò stéme para-patte-e- péce o anche, più brevemente: mò stéme péce = ora siamo pari,non abbiamo più nulla da pretendere reciprocamente.

Qui, secondo me, fa capolino quell’origine latina sopra riportata (pax, pactum). Correggetemi se sbaglio.

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Paradüse

Paradüse s.m. = Paradiso

In molte religioni, si definisce Paradiso quel luogo in cui sono radunate le anime dei giusti dopo la morte, e sono esaltate in modo eccelso dalla diretta visione di Dio.

Per estensione si definisce ‘nu paradüse un luogo reale della terra bellissimo e incontaminato.

So’ stéte alla Sicìlje: ‘nu paradüse = Sono stato in Sicilia: un vero paradiso.

Per dire “in paradiso” si dice ‘mbaradüse, legando “in” al sostantivo. Qualcuno dice ‘mbaravüse. Per me vanno bene entrambe le versioni.

Ecco un’interessantissima dissertazione di Enzo Renato sulla pronuncia di‘mbaradüse ‘mbaravüse:

 Mbaravüse in realtà lo dicono i Montanari ed i Montagnoli anche se non escludo che anticamente si dicesse così anche da noi.

Difatti, taluni antichi termini manfredoniani, oggi appaiono ai più come termini montanari, ma solo perché in tale dialetto essi si sono meglio conservati.

Il dialetto manfredoniano invece ha subito, negli ultimi decenni, una maggiore italianizzazione.

Tipici esempi:
– da iniziale doppia d si è passati alla doppia (cepòlle in luogo di cepòdde;cavàlle, martjidde diventati cavàlle, martjille. È rimasto códde per dire “quello”.

– da sc si è passati a j. da desciüne, scì dejüne, jì).

A Monte San’Angelo esistono così tuttora, sono rimasti invariati.

Inoltre la convivenza con la popolazione montanara generata, non solo dalla vicinanza, ma anche dai continui e frequenti matrimoni tra questa e quella gente, da sempre attestati nella storia, e maggiormente accentuata a seguito dell’emigrazione di massa, avvenuta nel secolo scorso, da Monte a Manfredonia, hanno creato una tale promiscuità di gente e di dialetti, che oggi è davvero un arduo compito individuare o riconoscere l’appartenenza esclusiva e totale di un certo termine ad uno dei due dialetti.

La mia convinzione è che, in definitiva, anticamente il nostro dialetto non doveva differire poi tanto da quello di Monte Sant’Ant’Angelo, se non nella pronuncia (che è tutt’oggi spiccatamente diversa).”

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Paranghele

Paranghéle s.m. = Palàmito, palangaro.

Grande attrezzo adoperato per la pesca d’alto mare, costituito da una lunga cima distesa orizzontalmente, da cui pendono centinaia di lenze (tecnicamente dette palamére = braccioli) distanziate tra loro di 50 cm e terminanti ciascuna con un amo innescato (con esca).

Usato anche come forma simil-italiano palamüte. Non mi piace.

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Parapalle

Parapalle s.m. = Parapalla

Ho usato come traduzione “parapalla” che in italiano significa tutta un’altra cosa, ossia una protezione inguinale indossata dagli atleti nello sport di lotta o in quelli dove possono avvenire scontri violenti, a salvaguardia delle parti basse.

Nel nostro caso mi sento autorizzato a tradurlo proprio “parapalla”, perché il Vate D’Annunzio, autore di tanti neologismi, sfottendo il suo amico F.Paolo Tosti in una lettera del 1906 lo ha apostrofato come “parapalla fesso”

Trascrivo – perché perfettamente combaciante con i nostri ricordi – quanto riportato sul sito web “Luceranostra.it”:
«Il parapalla era un passatempo fatto con una piccola palla di stoffa piena  di segatura e attaccata stava un lungo elastico con un anello alla punta, dove s’infilava il dito medio della mano. Con la stessa mano si lanciava la palla e quando  ritornava si doveva  “parare” con la stessa mano. I più bravi facevano questo movimento velocemente e senza sbagliare.
Il parapalla si usava anche per stuzzicare i compagni più irascibili: si lanciava la palla dietro il collo del compagno e dopo parata la palla con la mano, si nascondeva nella tasca e quello si arrabbiava come un diavolo. Il parapalla si comprava  presso le bancarelle durante le feste».

Aggiungo che i bancarellari evidenziavano la loro mercanzia con alte grida di richiamo.
Per il parapalle usavano lo slogan:
«’O parapalle, ‘o parapalle, tocca e non fa male!»

Qualche giovinotto sfacciato lo lanciava verso le terga della donzella che lo precedeva durante lo struscio. Quando la ragazza si voltava inviperita, il furfantello aveva già nascosto l’arma del delitto, ed era abbondantemente a distanza di sicurezza per destare alcun sospetto.
Una mascalzonata che rischiava, se scoperta, un finale in rissa.

Foto dalla pagina FB “Lizzano-Foto-Ricordo-Come-Eravamo”

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Parauande

Parauànde s.m. =Paraguanto, mancia

Denaro che si dà senza obbligo, oltre il pagamento di quanto dovuto, a chi ha reso un servizio.

Molto atteso dai ragazzi di bottega quando andavano a consegnare a domicilio l’oggetto confezionato o riparato in un qualsiasi laboratorio artigiano.

Ad esempio una giacca, un ricamo, un tavolino, una serie di vomeri o di picconi cui è stata rifatta la punta, una cornice, ecc.).

Sorprendentemente ho scoperto in rete che il termine era usato in lingua italiana già dal 1676!
Infatti quell’anno venne pubblicato un poema eroicomico scritto da Lorenzo Lippi, «Il Malmantile racquistato». In esso sono riportati i versi:
“Per buscar mance e paraguanti
Andaron molti a darne al re gli avvisi »(da Wikipedia)

Sul Vocabolario dei Sinonimi del 1886 è riportato:
«Paraguanto, Mancia, Beveraggio, Bonamano
-Paraguanto è ricompensa signorile data per nobili servigi a persone civili, quasi dica Per comperarsi i guanti, dallo spagnuolo para guantos (per i guanti).
-La Mancia si dà a persone di bassa condizione, per piccoli servigi.
-Il Beveraggio si dà a’ facchini e a’ vetturini, perché possano bevere: quella dei vetturini si dice anche Bonamano, e suol darsi per viaggi corti e per semplici accompagnature.»

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Parì mill’ànne

Parì mill’ànne loc.id. = Non vedere l’ora

La locuzione esprime l’impazienza con cui si vuole ottenere qlcs, mostra il desiderio, la smania, la brama di vedere una persona amata, o di gustare l’arrivo di una stagione e dei suoi frutti, o di la cessazione di un periodo negativo

È un grido di speranza che forse accorcia un po’ i tempi di attesa.

Angöre tre müse: me père mill’anne ca Mattöje fenesce ‘u suldéte! = Ancora tre mesi (di attesa):non vedo l’ora che Matteo termini il servizio militare!

L’italiano ‘sembrare un secolo’ non rende l’idea…’Mill’ànne‘ è più facile da pronunciare e sicuramente più colorito.

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Pàrle accüme t’ho fàtte màmete

Pàrle accüme t’ho fàtte màmete loc.id. = Parla la tua lingua madre

È un invito a parlare con linguaggio semplice, senza ricercare parole ad effetto non da tutti comprensibili.

In italiano, per esempio, c’è un aggettivo di moda che è diventato un tormentone: esaustivo. Lo dicono spesso i giornalisti per mostrare la ricchezza del loro lessico. Ma non è più semplice dire ‘esauriente’ o ‘completo’?

E quell’orribile verbo ‘obliterare’? Non è meglio dire vidimare, timbrare, marcare?Vabbè, sono mode e passeranno prima o poi.

Nel caso di questo nostro sito, pàrle accüme t’ho fàtte màmete è un invito a parlare manfredoniano!

Non tradite la lingua madre, abbandonandola per vergogna o per timore di essere giudicati ignoranti.
Con questo mio modesto ma impegnativo lavoro sto sostenendo tutti i Manfredoniani, aiutandoli a conoscere la nostra parlata più intimamente e forse con un pizzico d’amore in più.

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Parlé segnöre

Parlé signöre loc.id. = Non parlare in dialetto

In effetti significava, almeno fino all’inizio degli anni ’60, eprimersi in italiano, roba da pochi privilegiati (clero, professionisti, proprietari terrieri e ufficiali militari = signori, quindi) poiché tutti gli altri parlavano in dialetto.

Le femminucce avevano inventato il gioco di “parlé segnöre” con divertenti involontarie storpiature: “Si è spasciato il cìcino”: “Ho accattato due chini di potogalli”: “Mia madre ha fatto due belle siccie chiene: sopra l’indorci e a rianata” ecc…

Da quando c’è stato l’avvento della televisione si è diffuso l’italiano finalmente anche come lingua locale.

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Parocche

Parocche s.f. = Bastone, vincastro

Sorta di bastone usata dai pastori nel menare al pascolo le loro greggi.  Taluni pronunciano paròcchele.

Ha spesso l’impugnatura era grossa, a pomello, per la nodosità del ramo da cui era stato ricavato, il bastone era proprio un randello, una clava.  Spesso termina a uncino.

In Abruzzo, Terra di pastori, è chiamata molto similmente pirocche, a conferma della secolare transumanza delle greggi verso la Capitanata che poneva gli Abruzzesi a lunghi contatti con le nostre genti del piano.

Esiste una forma di naso “importante”: ‘u nése a paròcche.

I Romani lo chiamano tortòre, forse perché non proprio dritto.

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