Panzètte s.f. = Polpastrello
Piccola parte carnosa interna della estremità delle dita delle mani.
Me sò tagghjéte ‘a panzètte du djitöne = Mi sono ferito accidentalmente al polpastrello del dito pollice.
Piccola parte carnosa interna della estremità delle dita delle mani.
Me sò tagghjéte ‘a panzètte du djitöne = Mi sono ferito accidentalmente al polpastrello del dito pollice.
Papagghjöne s.m. = Zanzariera
Zanzariera a baldacchino, montata attorno al letto, molto usata nelle campagne per difendersi dalle punture della zanzara anòfele, (che trasmette la malaria).
Ricordiamoci che le campagne del Tavoliere per la presenza di paludi, erano infestate da questi insetti e che i lavoratori della terra che le frequentavano erano inesorabilmente colpiti dalla malaria.
La zanzariera a baldacchino era confezionata per letti singoli, matrimoniali e anche per culle.
Ovviamente non esistevano né insetticidi e né Autan.
Proteggendosi con questi veli dall’assalto delle zanzare si cercava di prevenire la malaria.
Per combatterla si adoperava il Chinino (‘u Chenüne).
Per evitare speculazioni, alla fine del 1800 la produzione del farmaco fu affidata ai “Monopòli di Stato”. Il “Chinino di Stato” (←clicca) fu posto in vendita nelle tabaccherie, perché era un prodotto del Monopolio, ma soprattutto perché le rivendite erano diffuse capillarmente anche nei centri rurali, ove le farmacie non erano presenti.
Con la bonifica del lago Salso (←clicca) e delle paludi costiere della Capitanata, avviata a fine ‘800 e accelerata negli anni ’30, oggi nel Tavoliere la malaria può dirsi completamente debellata. Ora dobbiamo guardarci dalla “zanzara tigre”.
Un tipo di zanzariera “a cupola” è usata dai campeggiatori per proteggersi dalle zanzare e da tutti i tipi di insetti volanti.
Nelle campagne della Daunia con questo nome si designa tutto l’insieme, ossia: la zanzariera, la brandina e il giaciglio, formato dal pagliericcio riempito di paglia.
Forse il suo nome deriva proprio da paglia (pagghje).
Papàgne sf = Papavero.
Precisamente erano così chiamati i semi del papavero, perché il fiore (in italiano detto anche ‘rosolaccio’) era chiamato “škàcche” o “škàppe” o “škòppe”).
L’ infuso di semi del papavero in acqua calda e zucchero, era somministrato ai lattanti irrequieti che non volevano prendere sonno, come se fosse stata una semplice e innocua camomilla soporifera.
In pratica i poveri bambini venivano “drogati” con la papaverina, un oppiaceo che si trova nella pianta del papavero!
Volevo vedere se non si addormentavano con quella sostanza in corpo!!
Quando qualche adulto “cascava” dal sonno diceva: “me sté venènne ‘a papàgne”.
Quando ha già fatto un sonnellino: Me so’ appapagnéte.
1) Nel significato di ochetta, fig. designa anche quelle adolescenti che si comportano da sciocchine.
2) Designa la ghianda, frutto secco delle querce, protetto alla base da un caratteristico involucro a forma di scodellino, utilizzato per l’alimentazione animale e in alcune applicazioni conciarie.
Perché a Manfredonia le ghiande sono chiamate paparèlle?
Racconto quello che emerge dai miei ricordi: quando uscivo dalla Chiesa Stella (età 7-8 anni) passavo dalla villa e raccoglievo alcune ghiande, le più grosse, perché servivano a fabbricare un modesto “giocattolo”.
In pratica si tagliava orizzontalmente la parte superiore della ghianda, compreso il suo cappellino. La parte inferiore termina a punta e il seme è pieno e sodo. Si conficcava nella polpa il gambo già bruciato de uno zolfanello (puzzolente fiammifero da cucina, chiamato anche “fulmenànde” o “aspjitte nu pöche”) in modo che si formasse una piccolissima trottola, cui si imprimeva il movimento della rotazione passando lo stecco del fiammifero tra i polpastrelli del pollice e del medio.
Si gareggiava con gli altri bambini, e vinceva colui che la faceva girare più a lungo.
Quando ci eravamo stufati di questo gioco, si prendeva un’altra ghianda grossa, decapitata della parte superiore, e si piantava uno stecco più lungo nel suo fianco.
Avevamo così costruito una miniatura di pipa, e la tenevamo a lungo tra i denti come faceva il nonno o Braccio di Ferro/Popeye. Questo atteggiamento ci faceva sentire adulti!
Siccome la pipetta era piccola, veniva chiamata “pipparella”. Il nome si è variato ed è poi diventato “paparella”.
Ripeto sempre, questi sono i MIEI ricordi, e non pretendo di pontificare ed essere infallibile sull’origine dei nomi.
3) Forse per una deformazione fonetica, si usava chiamare paparèlle il contenitore del pepe macinato, in italiano “pepiera”, al posto del piu´ corretto pöparèlle, da pöpe = pepe.
Quella in uso a casa mia, prima dell´avvento della plastica, era tutta di legno tornito, a forma di calice, il cui gambo si svitava per consentire di caricare questo contenitore.
Anche il “top” si svitava per mostrare il “tetto” bucherellato attraverso il quale si poteva spargere il pepe sulle pietanze. Un piccolo capolavoro dell´artigianato locale.
Ciascuno dei peli ricurvi disposti sul bordo della palpebra a protezione dell’occhio.
Era usato quasi sempre al plurale.
Per non creare equivoci da quale organo spuntassero questi peli, si specificava sempre ‘i papèlle de l’ùcchje = le ciglia degli occhi.
Papèlle forse deriva da palpebra.
Con un termine più moderno si usa chiamarle ‘i cègghje.
La lingua italiana si riferisce al pavone e il nostro dialetto…alla papera.
Tipico della gioventù. Mi vengono a mente i versi di Leopardo nel “Sabato del villaggio”, imparati a memoria mezzo secolo fa, in seconda media;
“Tutta vestita a festa
la gioventù del luogo
lascia le case e per le vie si spande,
e mira, ed è mirata,
e in cor s’allegra…”
Forse ho modificato qualche parola: non ho il testo per verificare.
‘I vì, cüme ce paperescèjene (oppure ce vanne paperescianne!) = Eccoli come si pavoneggiano!
Il termine, nella pronuncia, è tel-quel al francese papillon, farfalla.
I nostri genitori dicevano indifferentemente papjònne o scullüne (dim. di scòlle = cravatta, come dire cravattina).
Ovviamente era usato dal popolino solo nelle grandi occasioni (per il matrimonio proprio o quando testimoniava alle nozze altui). Indossare il papillon era prerogativa dei signori, dei cocchieri e dei camerieri in servizio di gala.
Per gli elegantoni che volessero annodarsi il farfallino possono trovare la descrizione e il filmato cliccando su papillon.
Pàppele s.m. = Tonchio
Nome generico di diverse specie di coleotteri della famiglia dei Bruchidi che, allo stato larvale, sono dannosi per molte piante della famiglia delle Papilionacee e per i frutti secchi di tali piante.
Il tonchio della fava è chiamato dagli specialisti Bruchus rufimanus, quello del pisello Bruchus pisorum e quello dei fagioli Acanthoscelides obsoletus.
Mamma mia che nomi! J’ chiù mègghje a düce pàppele = È meglio dire tonchio
Nel napoletano ho sentito pronunciare pàppece.
Il termine nostrano deriva dal greco antico peplos.
Paprecchjöne agg., s.m. = Sciocco, fessacchiotto
Generalmente è riferito a persona insulsa, facilmente raggirabile, un po’ ingenua, tarda nell’agire.
‘Stu paprecchjöne pe ‘nzacché ‘nu chjuve ce mètte mezza jurnéte! = Questo sciocco per piantare un chiodo impiega mezza giornata.
Probabilmente derivato da papero.
Per il femminile l’italiano similmente usa “oca” per dire sciocca.
Credo che per definire in dialetto le stesse “qualità” al femminile basti un semnplice “pàpre” = papera, oca.
Angöre mò ce arretüre ‘sta pàpre = Solo adesso rientra, questa sciocca.
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‘U papùnne (o anche papònne) era un personaggio orribile, evocato dalle mamme per spaventare i figli irrequieti e convincerli a rigar dritto.
Il “mostro” poteva arrivare immediatamente, proprio quando loro facevano i capricci.
Uì, mò vöne ‘u papùnne = Ecco, (lo vedi) ora viene il Babau!
Ai monelli le brave mamme raccontavano addirittura che ‘u papùnne avrebbe afferrato i bambini “cattivi” li avrebbe calati in un sacco per portarseli via nel bosco a mangiarseli! Perciò, zitti e calmi!
Nessuno ci credeva, né la mammina, né i discoli…..ma funzionava, almeno le prime volte.
Ricordo una vecchia canzoncina delle nostre mamme:
“Uh Madonne! Uh Madonne!
sott’u ljitte sté ‘u papònne!
Jü lu fazze pe caccé,
e sèmbe a qua ce völe sté!“
Traduzione: Oh, Madonna, oh Madonna, sotto il letto sta il babau! Io faccio (agisco) per scacciarlo (ma) sempre qua vuole restare.
Il mio amico Michele Carbonelli, che ringrazio vivamente, fa questa deliziosa descrizione:
«’U papunne.
Aleggiava in ogni casa, prediligeva stare sotto al letto o nello stipo a muro. Lentamente si alzava quando veniva chiamato per incutere paura ai bambini disobbedienti.
Figura d’oltretomba somigliante più ad nube bassa e cupa che ad un fantasma. A modo suo cattivo con vene di bontà: non si ricordano azioni persecutorie ai danni di anime deboli.
Era considerato uno di famiglia, un parente invisibile da temere, sempre presente all’occorrenza. Non attirava folle e non amava alcool e droga [come probabilmente accade con le varie attuali “Samara” in carne e ossa, che compaiono ormai ovunque come una sfida stupida-ndr] Un tipo solitario e tutto sommato pacifico, ma sempre pronto ad intervenire per sedare capricci, pianti e desideri impossibili.»