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Pisciachéne

Pisciachéne o Pisciarille s.m. = Cocomero asinino, sputaveleno

Si tratta di una pianta infestante (Ecballium elaterium) che ha la singolarità: all’interno del frutto – a forma di vescica ovoidale contenente  i semi e un liquido che li circonda –  sviluppa una pressione idraulica molto elevata. Al minimo movimento (animali che li sfiorano, vento) questi frutti si staccano dal peduncolo e “sparano” lontano anche alcuni metri, liquido  e semi.

In questo modo singolare la natura  favorisce la  riproduzione della pianta in uno spazio più esteso. Gli studiosi botanici hanno misurato fino a 12 metri la gittata balistica dello spruzzo!

Lo schizzo del liquido ha fantasiosamente dato il nome dialettale (piscia+cane) o regionale (sputa+veleno).
Dice Wikipedia che «In medicina si può usare il liquido essiccato come forte purgativo; in erboristeria ne è vietato l’uso data l’elevatissima tossicità».

Questa pianta è infestante e cresce in tutto il Bacino Mediterraneo, specie nei terreni costieri incolti, perché non sopporta temperature molto rigide.

La Treccani mi fornisce le divertenti denominazioni in lingua straniera:
fr. concombre sauvage, concombre d’âne, giclet;
sp. cohombrillo amargo, pepinillo del diablo;
ted. Springgurke, Eselsgurke;
ingl. squirting cucumber

 

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Pisciarjille

Pisciarjille s.m. = fiotto

Questo termine designa una fuoruscita di liquido dalla sua sede naturale.

Ovviamente deriva dal verbo pescé = pisciare, urinare per la forma che assume il gettito urinario durante la minzione.

Dalla tubbazziöne jèsse l’acque a pisciarjille = dalla tubazione (rotta) fuoriesce l’acqua a fiotto.

Ovviamente pisciarjille può riferirsi anche alla perdita di liquidi con intensità meno prorompente dell’acqua dei tubi.

Jèsse ‘u sanghe da ‘u nése a pisciarjille = Esce il sangue dl naso a fiotto. Epistassi traumatica o da fragilità capillare.

Quando la perdita non è evidente, cioè non è ben visibile, si dice che il recipiente sgorre =perde, non è a tenuta

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Pisciatüre

Pisciatüre  s.m. = Pitale

È la denominazione antica – il termine è pressoché scomparso dal lessico moderno – di un oggetto in disuso.

Nel sinonimo renéle ho spiegato quello che c’era da spiegare, con tanto di fotografia: cliccate qui.

Oggi si chiama in italiano, vasino, ed è esclusivamente ad uso dei bambini e della canzoncina “C’era una casa….”
«…non si poteva far la pipì
perché non c’era vasino lì.»

Il termine è talora usato per indicare spregiativamente un oggetto di nessun valore o anche una persona di scarsa professionalità, un fannullone, inaffidabile e moralmente discutibile.

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Piscindindì

Piscindindì s.m. = Pendente

Ciondolo oppure orecchino con pendaglio a forma di goccia.

A volte combinati con lo stesso stile, si ordinavano dal gioielliere la parure completa: pendentifcollier, anello e orecchini, tutti coordinati. Ma era roba da ricchi.

Il termine deriva dal francese pendentif. A causa dell’ignoranza il suono ha subito questa divertente corruzione.

Ora che hanno frequentato la scuola dell’obbligo, le ragazze, se vogliono farsi regalare quel tipo di gioiello, sanno benissimo come va pronunciato.

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Pìsele

Pìsele s.m. = Paracarro 

Non sapevo se esistesse un termine italiano per descrivere quella colonnetta di pietra posta agli spigoli degli antichi palazzi signorili.

Feci appello agli Architetti o agli Ingegneri lettori di questo sito affinché mi dessero l’esatta denominazione.  Data la sua funzione l’avevo ribattezzata “salvaspigoli” perché ritenevo questo nome azzeccatissimo.

Nella foto  è riportata la colonnetta in Corso Manfredi, angolo Via De Florio

Un’anima buona mi ha detto che in italiano si chiama semplicemente paracarro! Difatti per evitare che carrozze o altri veicoli a trazione animale, svoltando per la strada troppo rasenti la parete, scalfissero con l’asse o le ruote gli spigoli dei palazzi.

Wikipedia mi ha dato un esempio fotografato a Kitzingen (←clicca) in Germania del tutto simile al nostro pìsele.

Una colonnetta più bella, in stile con l’edificio settecentesco, è collocata sempre su corso Manfredi angolo Via dei Celestini, sul Palazzo omonimo, ed è l’unica superstite: le altre tre che erano poste agli altri spigoli sono scomparse in questi secoli.

Negli edifici più modesti invece della colonnina posava agli spigoli un grosso frammento di roccia. Il macigno era utilizzato anche come “pedana”, un rialzo per caricare o alleggerire la il basto dell’asino, o per salire in groppa ad un mulo, un somaro o un cavallo.

Andando nei meandri della mia ormai arrugginita memoria, mi pare di ricordare che i contadini chiamassero pìsele anche ognuno dei due pilastrini in muratura che sorreggevano l’inferriata del cancello (l’insieme, ossia il cancello e i due pilastri di sostegno, era chiamato ‘u uéte= il “guado”, il passaggio).

Chiamavano pìsele anche i cippi posti ai confini dei terreni per delimitarne la proprietà, ad evitare odiosi sconfinamenti dalle conseguenze sempre spiacevoli.

E se non sbaglio erano conosciute come pìsele anche le colonnine che sostengono la trave (di legno o di pietra, cui è appesa la carrucola del pozzo. Un esempio lo troviamo nel chiostro del Palazzo San Domenico.

Queste colonnette a Mottola vengono chiamate Pisùli. A Matera vengono chiamate dai più anziani Pesüle.

In epoca contemporanea talvolta sono utilizzate, in fila e legate con una catena metallica l’una all’altra, come dissuasori o delimitatori di parcheggio. Noi usiamo per questa incombenza il comodo e pieghevole stendino….

Comunque ringrazio Matteo Borgia (Manfredonia Ricordi) per l’utilissima imbeccata.

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Pizzarèlle

Pizzarèlle s.f. = Dolciume

Dolcetto di forma rotondeggiante, a cupoletta in cima alla quale spesso si poneva un chicco di caffè tostato, fatto di farina, zucchero e uova.

Guardando i componenti si può dire che sono un po’ come i “pavesini” fatti in casa.

Anche le pizzarèlle si mandano in forno sulla teglia larga (‘a ramöre = la lamiera)

Sono tipici nel periodo natalizio, ma hanno fatto la loro bella figura anche nei rinfreschi di nozze.

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Pìzze alla vàmbe

Pìzze alla vàmbe s.f. = Focaccia alla fiamma.

Una specialità di Manfredonia caduta in disuso perché non si fa più il pane in casa.

Difatti le mamme quando impastavano in casa la farina per la panificazione, con la stessa pasta lievitata preparavano quasi sempre il tortanello, e questa focaccia, con pomodori freschi affondati nella pasta, olio, sale e origano.

Il forno pubblico era in fase di riscaldamento (ecco la presenza al suo interno della vàmbe = fiamma, che dà il nome alla focaccia) e le massaie chiedevano al fornaio di cuocere velocemente queste piccole cose prima dell’infornata del pane.   Al fornaio serviva anche da test per giudicare la temperatura del forno.

Il disco della focaccia veniva portato al forno su un legno compensato opportunamente infarinato. Il fornaio abilmente lo trasferiva sulla pala e lo introduceva nel forno per riprenderlo dopo pochi minuti, sfrigolante e fragrante.

Sapori e profumi lontani.

Ho scoperto casualmente che più o meno come la nostra è fatta in Alsazia (Regione della Francia confinante con la Germania), col nome di Flammkuchen o Tarte flambée .

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Pìzzeche

Pìzzeche s.m.= Pizzico; pala di cactus (botan.)

1) al maschile ‘u pìzzeche, significa pizzico, pizzicotto;

2) al femminile ‘a pìzzeche vale “pala da cactacee”

Nel nome composto Pìzzeche-fechedìgne sf = “Pala” spinosa della pianta dei fichidindia e delle cactacee in genere.

Erroneamente si ritiene che la pala sia una foglia. Invece si tratta di ramo, Le foglie sono gli aculei ( i zengüne)

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Pizzechìlle

Pizzechìlle s.m. = Pizzicotto

Il pizzicotto è una stretta data con il pollice e l’indice a una parte molle del corpo.

Se dato con l’intento di far male, in una zuffa tra adolescenti, dicesi (al maschile) ‘u pìzzeche: in questo caso può lasciare un’ecchimosi sulla parte pizzicata.
Attenzione che al femminile ‘a pìzzeche indica la “pala” dei fichidindia.

Quando è dato affettuosamente sulla guancia è detto pizzichìlle. Questo…non fa male! Cantavano i Napoletani: “pìzzeche e vase nun fanne pertòse” = Pizzicotti e baci non lasciano piaghe o ferite.

U béce a pizzechìlle = È un bacio scambiato fra ragazzotti, dove ognuno tiene fra i pollici e l’indice di entrambe la mani le guance del partner. Uno dei primi baciotti, “un giuramento fra due anime fatto più da presso… un apostrofo color rosa posto fra le parole ti amo” (Edmond Rostand: Cyrano di Bérgerac – Atto III, scena X).
Scusatemi se mi son lasciato andare con il mio inguaribile romanticismo.

Anche in Campania, in Molise ed in Abruzzo, ossia nelle Regioni confinanti con la Capitanata, usano la locuzione ‘nu vàse a pezzechillo”

Vi ricordate quella canzone popolare abruzzese “Vola vola vola”?:
E vola vola vola
e vola lu cardille;
nu vasce a pizzichìlle
ne’ me le può negà.

Siccome è breve, approfitto infine della vostra pazienza per ricopiare qui di seguito una bellissima poesia del grande Totò [saltatela se vi dà fastidio]:

Si fosse n’auciello, ogne matina
vurria cantà ‘ncoppa ‘a fenesta toja:
«Bongiorno, ammore mio, bongiorno, ammore!».
E po’ vurria zumpà ‘ncoppa ‘e capille
e chianu chiano, comme a na carezza,
cu stu beccuccio accussì piccerillo,
mme te mangiasse ‘e vase a pezzechillo…
si fosse nu canario o nu cardillo.

(Antonio De Curtis)

Dimenticavo: qualcuno dice anche béce a pezzechìlle o anche a pezzechìcchje. Non mi piace quest’ultima versione, mi sembra un po’ rozza.

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Pjiteràsse

Pjiteràsse s.m. = Pederasta

Uomo che pratica la pederastia; in senso più ampio e oggi è desueto. Più  usato il termine omosessuale, o gay.

La prima volta che da ragazzino ho sentito questa parola (Uhé, pjiteràsse!) mi è venuto da ridere irrefrenabilmente, perché ho pensato ai piedi (pjite) distanti (daràsse): uno che camminava con le gambe divaricate non può essere che un clown…

Invece il significato del termine è molto serio, non deve far ridere.

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