Categoria: M

Mèh

Mèh inter. = Suvvia, deh,

È una interiezione usata spesso con diverse funzioni.

  • Funzione esortativa (suvvia, ti prego, e dai, accontentami, ecc.)
    Mèh, e fammìlle ‘stu piaciöre! = Suvvia, e fammelo questo piacere!
    Specialmente ripetuto Mèh, mèh si usa per incitare,  incoraggiare, confortare, aiutare, ecc.).
    Mèh, mèh ‘ngarecànne, ca döpe ce aggióste tutte cöse! = Su non affliggerti, ché dopo si aggiusta tutto!
  • Funzione conclusiva (in definitiva, dunque, allora, pertanto, ecc.)
    Méh, mò ce ne jéme! = ebbene, adesso ce ne andiamo.
  • Funzione interrogativa (ed allora? ebbene? quindi?)
    Te sì vìste per Lunàrde? Méh? = Ti sei incontrato con Leonardo? Ed allora? (che cosa avete concluso, che cosa mi riferisci, che aspetti a parlarmene?)

Guardate una sola sillaba che cosa riesce a esprimere!

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Méje

Méje avv. = Mai

Méje (o anche ) è usato in proposizioni negative, per dire: in nessun tempo, nessuna volta, in nessun caso.

Mé e pò mé = Mai e poi mai (rafforzativo)
‘Nziamé = Non sia mai, Dio ne scampi!
Quannì ca m’ajüte a mè? Méje = Quando mi aiuti? Mai!
Nen sò stéte méje a Torüne = Non sono stato mai a Torino.

La pronuncia di  con la é molto stretta, è identica alla seconda sillaba del francese Jamais, ja-mais= mai, giammai.

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Méle San Dunéte

Méle San Dunéte loc.id. = Epilessia, mal caduco, morbo comiziale, convulsioni.

Alla lettera significa: ‘Male di San Donato’: Santo, che ahimé, evidentemente ne era affetto, o che veniva invocato in soccorso per i soggetti colpiti da attacchi epilettici.

Le crisi epilettiche si manifestano con violente convulsioni che scuotono profondamente il malato con successivo svenimento.

Si dice anche, per enfatizzare uno spavento: M’ha fatte venì ‘u méle San Dunéte = Mi hai fatto venire un colpo!

L’amico medico dr. Matteo Rinaldi, cui va il mio sentito ringraziamento,  mi ha fornito queste notizie:

«Per gli antichi era il “morbo sacro” perché credevano che l’epilettico, in preda all’attacco classico, fosse da considerare invasato da qualche demone. Come spesso accadeva una volta, la non conoscenza di una malattia trovava la giustificazione nel sacro e nella magia.»

Ovviamente tralascio tutta la sua dotta spiegazione storico/scientifica, che esulerebbe dal fine meramente linguistico di questo lavoro.

Ho assistito mio malgrado ad un attacco epilettico di tipo major, con scuotimento e perdita di conoscenza da parte del soggetto, e vi assicuro che non è una cosa da nulla.

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Méleppègge

Méleppègge s.m. = Mannaia

martelli.È ammessa anche la dizione male-e-ppègge o anche, tutta insieme malèppègge.

È un arnese del muratore, una specie di ascia bipenne snella e con i due tagli. Uno dei tagli è parallelo alla direzione del manico, come quello dell’accetta, e l’altro di traverso, come quello della zappa.

Utilissimo nel modellare i conci di tufo e adattarli all’uso. Ruotandolo di 180° si dispone immediatamente di un taglio dritto o traverso.

Ho chiesto a un Mastro muratore perché questa piccozza è chiamata così. La risposta è stata divertente: siccome l’arnese è tagliente, se non si sta attenti a maneggiarlo,  una marra può far male, e dall’altra…può far di peggio!

Infatti l’oggetto è taglientissimo e la traduzione letterale è “male-e-peggio”.

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Melìzzje

Melìzzje s.f. = Polizia stradale

Il nome mi è rimasto nelle orecchie fino agli anni ’60. Deriva dalla denominazione fascista di “Milizia stradale” (Milizia, da Militi: addetti al controllo del traffico lungo le strade statali).

Temutissima per l’intransigenza dimostrata dagli Agenti nell’applicare meticolosamente il Codice stradale. Se qlcu non osservava le norme di circolazione faceva i conti con questi incorruttibili e solerti funzionari, pronti a fare la contravenzjöne = la multa o ‘u verbéle = il verbale di conciliazione.

Non avevo la patente a quell’epoca, non dovevo temere nulla: eppure la pattuglia mi impressionava ugualmente, con la coppia delle rombanti motociclette Gilera 500.

Sté ‘a melìzzje! = C’è la polizia stradale (di pattuglia)!

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Melòcche

Melòcche s.f. = Pastone, alimento stracotto, colloso

Si tratta specificamente di riso o di pasta alimentare passati di cottura, o per distrazione, o per imperizia, o per cattiva qualità dell’alimento.

Quando il “primo” viene posto nel piatto sembra un ammasso molle, colloso, appiccicoso, attaccaticcio. Insomma ‘na melòcche!

Mangiatìlle mò, se no addevènde a melòcche = Mangiatela ora, altrimenti diventa (come) un pastone

Rosè,  questa paste assemègghje a ‘na melòcche (oppure jì ‘na melòcche) = Rosella, questa pasta sembra (oppure è) un impiastro colloso,

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Melöne

Melöne s.m. = Popone e anguria

1 – Frutto commestibile  (cucumis melo) di forma rotonda o anche ovoidale, con buccia liscia (brindisino) o solcata (gialletto) o reticolata (cantalupo), con polpa zuccherina e profumata, di colore bianco paglierino nei tipi “brindisino” e “gialletto”, o arancione nel “cantalupo”.

Nel Sud d’Italia il popone viene chiamato  melöne de péne  = melone di pane, perché di polpa chiara e più soda.

2 – Di contro, sempre nelle Terre del Sud, quello a polpa rossa, (Cucumis citrullus o Citrullus vulgaris) viene chiamato melöne d’acque = melone d’acqua, così come succede in inglese (watermelon),  in tedesco (wassermelon) e nelle lingue nord europee e scandinave.

Come soprannome Melöne designava tale Antonio Potito – notissimo banditore – forse per la sua testa pelata, in attività fino agli anni ’50.
Vi invito a cliccare qui per darvi un ‘idea sull’attività dei banditori locali.

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Menàrece ‘mbàcce

Menàrece ‘mbàcce loc.id. = Risaltare, reagire

1) Risaltare. Saltare agli occhi. Essere vivace, appariscente, appetitoso.

Accüme sò i trègghje? Belle! Ce mènene ‘mbàcce! = Come sono le triglie? Belle! Saltano agli occhi!

2) Aggredire verbalmente, rispondere indispettiti, reagire inaspettatamente.

‘Na paröle agghje dìtte, e códde c’jì menéte ìmbacce cüm’a ‘nu chéne arraggéte = Avevo appena cominciato a parlare, e subito costui di ha aggredito verbalmente, abbaiando come un cane rabbioso.

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Menàrece ‘nanze

Menarece ‘nanze loc. id. = Anticipare (fig.)

Alla lettera significa “buttarsi avanti”. Come per evitare una caduta.

Figuratamente la locuzione vuol dire: ammettere astutamente, fingendo candore, un atteggiamento colposo, evidenziandone la buona fede, prima che venga scoperto da altri, allo scopo di smorzare l’inevitabile biasimo.

C’jì menétè ‘nanze e ò azzettéte ‘u fatte = Ha anticipato il discorso ed ha confermato il fatto riprovevole.

Il verbo menàrece = buttarsi è ricorrente anche nelle locuzioni:
menàrece ‘mbacce e menàrece jìnde

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Menàrece jìnde

Menàrece jìnde loc.id. = Stuprare

Questo modo di dire locale, alla lettera, significa: precipitarsi all’interno di un’abitazione altrui. Il che non è grave se non per lo spavento che il gesto può arrecare ai suoi abitatori.

‘U züte c’jì menéte jìnd’ alla züte! = Il fidanzato si è introdotto nella casa della fidanzata.

Il vero significato è molto più complesso dell’entrare in casa d’altri senza bussare…

Si tratta di un vero e proprio stupro “concordato” tra il focoso giovanotto e la procace fanciulla per indurre i genitori di costei a dare il consenso forzato al matrimonio “riparatore”. In questo modo si aggiravano tutte le opposizioni dei futuri suoceri (babbo non vuole, mamma nemmeno, come faremo a fare l’amor?…).

Un attimo, lei restava sola perché i suoi erano usciti, apriva l’uscio faceva entrare il suo amato. Si chiudevano all’interno quel tanto che bastava. Quando ritornava la madre, e trovava la porta chiusa, sapendo che la sua figliola era all’interno, faceva la ‘sceneggiata’, urlando e sbraitando. Poi arrivava il padre ed erano minacce, suppliche e trattative.

Alla fine: Meh, japrüte, ca nen ve facjüme njinde = Dai, aprite, che non vi facciamo nulla.

E la faccia e l’onore erano salvi. Così vissero tutti felici e contenti.

Talvolta i poveri ragazzi o per ristrettezza di tempo, o per propria scelta, non riuscivano nemmeno a compiere il fatidico atto sessuale. Il fatto di essere stati sorpresi soli e chiusi all’interno di un’abitazione bastava e avanzava per accusare il giovanotto di aver arrecato disonore alla povera fanciulla…

Altre volte l’azione era incoraggiata dai poverissimi genitori di lei che con questo modo riuscivano a far celebrare il matrimonio alla chetichella, senza alcuna festa, la mattina all’alba, senza abito bianco (indegno di essere indossato dalla ragazza disonorata), e nella sacrestia della Chiesa, con pochissimi invitati e pochissimi pasticcini.

Purtroppo si sono registrati anche casi di stupro vero e proprio. In questo caso il giovanotto aveva una sola alternativa o di finire accoltellato o di accettare il matrimonio. Sposava la poveretta ma la convivenza, basata solo sull’attrazione carnale, era destinata a inaridirsi. E non esisteva il divorzio! Figuratevi la vitaccia di entrambi…

Sembra un romanzo ottocentesco. Vi assicuro che tutto questo accadeva quando io ero ragazzotto, diciamo fino alla fine degli anni ’50. Chiedetelo ai vostri genitori o ai vostri nonni.

Una cosa simile consiste nella fuga dei piccioncini in una casa accogliente, con il pernottamente fuori dalla casa dei genitori di almeno una notte comportava le stesse conseguenze. In questo caso (in siciliano si dice fuitina = scappatina) l’azione dicesi scapparecìnne = fuggirsene, fare la scappatina.

Necöle e Lucjètte ce ne so’ scappéte = Micola e Lucietta hanno fatto una fuga d’amore. Alla lettera: se ne sono scappati (da chi? da coloro che si frapponevano alla loro relazione).

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