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Giungòmme

Giungòmme s.f. = Gomma da masticare.

È una parola relativamente recente. È arrivata con le truppe Alleate nel 1943. Ovviamente è la trasposizione dialettale del termine americano “chewing-gum” (pron. ciuìn-gam).

Per estensione si chiama giungòmme anche un boccone di carne che non si riesce a masticare bene perché pieno di nervetti, o anche un impasto fatto con farina di scarsa qualita, inadatta a stendere la sfoglia, perché si restringe (ce arrògne)

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Giudöje

Giudöje s.m. = Giudeo, Israeliano

Erroneamente, per tradizione cristiana medievale, che riteneva Israele una nazione deicida, Giudeo era sinonimo di soggetto malvagio, scaltro, traditore, usuraio, e chi più ne ha più ne metta.

È più corretto comunque dire Israeliano, essendo la Giudea, come la Samaria, o il Golan, (e la stessa Palestina), solo delle Regioni dello Stato ebraico moderno.

Al plurale suona Giudüje.

Assemègghje a Crìste ammjizze ‘i Giudüje = Mi sembra Cristo in mezzo ai Giudei. Per esempio un imputato nell’Aula del Tribunale, fra due Carabinieri durante lo svolgimento del Processo.

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Giòvene de ciàppe

Giòvene de ciàppe = loc.id. Giovane elegante, ma di poco costrutto.

La ciàppe è il gancio che allaccia i due lembi della cappa, il tabarro dei nostrti nonni. I gancetti minuscoli per i reggiseni si chiamano ciappètte.

Una volta tutti gli uomini, invece del cappotto, d’inverno usavano un mantello che era allacciato al collo da questo fermaglio di metallo. Spesso era di ottone lucidato col Sidol.

Se era particolarmente rifinito, la ciàppe riluceva sul mantello nero. Era la prima cosa che saltava agli occhi quando si osservava il giovanotto.

L’origine della locuzione  è decisamente iberica  infatti in spagnolo hombre de chapa significa uomo serio, assennato, giudizioso.

Da noi viene spesso usato in antitesi, oppure in maniera ironica.  Per molti la cappa non mostrava quello che c’era sotto, e l’aspetto esteriore poteva nascondere ben altro.

Allora figuratamente il giòvene de ciàppe era uno che badava all’apparire e non all’essere.
Proprio come fanno molti ragazzi dei giorni nostri.
La natura umana non cambia mai: cambiano i mezzi e le epoche.

Fine della lezione di morale.

Ecco cosa scrive l’amico Enzo Renato per spiegare il significato della locuzione dialettale:

«Vado ad intuito e penso si riferisca alle “ciappe“, i ciappette, chiusura a scatto di stagno, quindi uomini di ciappe, di poco conto, rispetto ai bottoni, forse più “dignitosi” delle ciappette!

Il numero e la posizione dei bottoni ha sempre contraddistinto chi li portasse o indossasse. Avere molti bottoni forse nell’immaginario popolare antico corrispondeva al meglio, come per la “coppola” .

Si diceva anche di un uomo di poco conto che è “ l’óteme bettöne d’a vrachètte!” = l’ultimo bottone della patta. oppure che “Oraméje jì cadüte a còppele!” = ormai gli è caduta la “coppola” (segno che anticamente contraddistingueva il maestro artigiano)  come per dire non ha più l’autorità del Maestro.»

 

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Giòvene 

Giòvene s.inv. = giovane

L’aggettivo giovane qui è usato in forma sostantivata per indicare una persona non avanti con gli anni.

Per distingue il genere maschile d quello femminile si ricorre all’articolo: ‘U giovene, ‘nu giovene ‘a giovene, ‘na giovene.

Per antonomasia ‘U Giovene = Il giovane è il protagonista cinematografico. Ovviamente ‘a giovene era l’eroina della storia narrata nel film.

Immancabili personaggi dei film western, ove compariva in antagonismo anche ‘u tradetöre se agiva da solo o ‘u chépe tradetöre se si trattava di una combriccola.

Prima dell’avvento della televisione il cinema aveva riempito la nostra fantasia. Non potevamo ricordare i nomi americani (Mr.Hartworth, Weissmuller, Flanaghan, Pitchwork, Hitchcock, Hayworth, Williams, Johnson, Wayne, ecc.) e li etichettavamo così per poterli raccontare a quelli che non avevano potuto assistere alla proiezione.

Ovviamente ‘u giòvene e la giovene, dopo tante peripezie, arrivavano al lieto fine prima che comparisse la fatidica scritta the end. Era l’ultima inquadratura. Sapevamo che significava FINE già dalle prima elementare.

Ringrazio il lettore Matteo Salvemini per il suggerimento.

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Giarre 

Giarre s.f. = Giara

Recipiente di terracotta, dalla bocca larga, della capacità di circa 20 litri, usata per lo più per contenere acqua, detta anche quartére.

Spregiativamente si definiva vòcche de giàrre=bocca di giara qlcu che non sapeva tenere un segreto, o anche semplicemente perché aveva proprio fisicamente una bocca larga.

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Giargianöse

Giargianöse agg. = Strambo

Riferito specialmente a un modo di parlare incomprensibile e confuso.

Giargianöse è il corrispondente parlato della brutta grafia, ovvero che denota un modo di parlare orribile.

Probabilmente è un’alterazione  di germanöse, germanico,  settentrionale, straniero.
Il termine si è diffuso in tutta Italia, addirittura nel milanese, ove “giargianese” definiva tutti quelli che venivano da fuori, tipo tamarro.
Un’altra corrente di pensiero fa risalire l’aggettivo ai Viggianesi, cioè ai nativi di Viggiano in Basilicata, molti dei quali erano musicisti girovaghi, noti arpisti che si spingevano molto lontano dalla loro provincia.. L’arpa usata da costoro dalla metà e alla fine del XVIII secolo era di dimensioni ridotte rispetto a quella da concerto e non aveva pedali.
Figuratevi quanto poteva essere comprensibile un dialetto dell’entroterra lucano alle orecchie di un cittadino lombardo o piemontese.

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Giangiàcche

Giangiàcche n.p. = Giangiacomo dal francese Jean-Jacques.

Ho sentito anche Giancècche: una signora era chiamata Giancècche ‘a vaccjüne (la vaccina)

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Giajànde

Giajànde s.m. = Gigante, colosso

Descrive un omone grande e grosso.

Ho sentito dire anche ” ‘U giajànde Maradòsse” per definire un “guappo di cartone” o uno spaccone, uno sbruffone. “Mo’, sinte a jìsse, ’stu giajànde Maradòsse!” = Adesso, sentilo, quest’uomo da niente!

Il “gigante” di Siponto era una figura mitica, costruita dalla nostra fantasia di bambini, a misura delle dimensioni del grande sarcofago di pietra tuttora esistente nella cripta della Basilica di S.Maria Maggiore di Siponto (abbàsce ‘a Sepundüne).

“Mado’ avöv’ a jèsse ‘nu giajànde, ‘nu colosse! Ha vìste quant’jì?” = Madonna aveva da essere un gigante, un colosso! Hai visto quant’è?

Quindi “giajande” significa sì gigante, ma, per estensione, anche: gioiello, coccolino, bambolotto, cöre de mamme, e mille altri modi che le tenerissime madri sanno trovare per vezzeggiare i loro bambini

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Giacchè-quèste

Giacchè-quèste cong. = Poiché, dal momento che…

Per la ragione che, dal momento che, dacché; introduce una causale e vuole l’indicativo come in italiano.

Vüje nen studiéte! Giacchè-quèste stasöre nen ce jéte a fàrve ‘a pìzze = Poiché voi non studiate, questa sera non andrete a farvi la pizza

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Ghjòmmere

Ghjòmmere s.m. = Gomitolo di filo.

Deriva dal latino glomus – glomeris.
Accettabile anche ghjòmere, con una sola “m” e gghjòmere con iniziale semplice o doppia.
Si tratta di una palla di filo dipanato e avvolto a mano.

Si comprava il filo (di cotone o di lana) a matasse (a bomméce). Lo si avvolgeva a gomitolo per avere il filo continuo senza pericolo di aggrovigliamento. E poi si usava per sferruzzare.

Le nostre nonne erano abilissime ai ferri (per farne calzettoni) o all’uncinetto (firracruscé= francese “fer-à-crocher” = ferro da uncinare, da agganciare).

I Napoletani pronunciano gliòmmere (con la ‘gl’ di figli, non di glicine).

Quelli più piccoli sono detti ghjumarjille,
In altre provincie di Puglia e Basilicata questa voce diminutiva (gnumeridde, gnumeriedde, gnimeredde) indica i nostrani torcinelli  (←clicca).

Per le donne che amano lavorare ai ferri, sono in commercio dei gomitoli pronti, preparati industrialmente, che hanno una forma ovoidale, non sferica.
Per distinguere i due formati, questi in dialetto vengono chiamati gumìtele, con voce simil-italiana.

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