Dacchessì avv. = Così
In questo modo, in questo aspetto, in cotal forma e sim.
Meh, nen facènne dacchessì! = Dai, non fare così!
Dacchessì avöv’a jèsse = Così avrebbe dovuto essere.
Daddjiche sopr. = D’Addiego.
È la forma dialettale del cognome D’Addiego. Ormai è un soprannome “quìdde Daddjiche” = quelli (appartenenti alla famiglia) D’Addiego.
Caremöle Daddjiche = Carmela D’Addiego, classe 1905, era un’amica della famiglia di mio padre.
Era una nonnina vivace, senza peli sulla lingua, molto in gamba.
Dammàgge s.m. = Danno
Perdita di integrità o di funzionalità causata da qlcu o qlco. Quelli per esempio alla vettura a seguito di uno scontro.
Uagnü’, stateve cujöte, nen facjüte dammagge = Bambini, statevi quieti, non fate danni.
Anche il danno morale – previsto dalla Giurisprudenza oltre a quello materiale – dicesi dammagge.
Scherzosamente quando andavamo a ballare i nostri genitori ci raccomandavano:
A) nen faciüte a lïte pe nesciüne = non litigate (né tra di voi né) con nessuno.
B) ne jéte facènne dammagge = Non fate danni (siate molto seri con le ragazze).
Deriva dalla parola francese dommage che ha lo stesso significato.
Damò de nànde loc.avv. = D’ora in poi
Accettabile anche da mò de nànze = Da ora in avanti.
In ogni caso si pronuncia con una sola emissione di voce, come fosse una sola parola: damodenànze.
Quando si dà un ordine perentorio, si intende cambiare immediatamente un andazzo, una disposizione, si inizia così: da questo momento si fa in questo modo!
Da mò de nànze mìttete a studjé alla veramènde, ca se nò nen pàsse! = D’ora in poi impegnati a studiare seriamente, altrimenti non supererai gli esami.
Daniöle np = Daniele
Il nome biblico di Daniele deriva ebraico Daniy’el è composto da ‘dan‘= ‘ha giudicato’ e da ‘el‘, forma abbreviata dell’espressione Elohim, “Dio”, traducibile in ‘il Dio ha così giudicato’.
In greco divenne Δανιελ/Danièl e in latino Daniel e in italiano Daniele o Daniela.
Si narra che il profeta Daniele visse nel VI-VII secolo a.C. Giunto in Babilonia, ottenne cariche amministrative importanti e conquistò la stima e la fiducia del re Nabucodonosor. Ciò gli procurò le antipatie e le ire di numerosi babilonesi e lo gettarono tra i leoni, ma ne uscì miracolosamente indenne e la sua vicenda ispirò numerosi artisti.
Michelangelo lo riprodusse negli affreschi della Cappella Sistina, Bernini lo scolpì in un’opera bronzea custodita a Roma nella chiesa di Santa Maria del Popolo.
Riconosciuto santo dalla Chiesa cattolica, viene festeggiato il 21 luglio. Particolare popolarità del nome è dovuta alla cittadina friulana di San Daniele del Friuli, patria del famoso prosciutto.
Ai Manfredoniani il nome Daniele fa tornare in mente un prestigioso Albergo, stile Liberty, che si ergeva sulla Piazzetta del mercato, a ridosso della spiaggia Diomede. Fu abbattuto perché ritenuto pericolante con decreto prefettizio nel 1973.
“L’albergo Daniele, costruito nel 1912, rappresentava l’hotel di Manfredonia per eccellenza. Situato al centro del paese con la migliore vista mare, aveva una facciata in elegante Liberty (Art Noveau) ed una terrazza affacciata sulle vecchie mura”
Il poeta concittadino Lino Nenna ha scritto un sonetto dedicato a quest’albergo abbattuto:
L’Albèrghe Daniöle
Cüme ‘u vjinde gonfie
e fé parte ‘na völe,
jì partüte l’albèrghe Daniöle.
Jü te vöte, palazze müje
angöre jògge accüme e prüme.
Stjive a llà, ‘mbìzza ‘mbbìzze
fatte proprje p’ ‘i spusalìzzje.
Quanda volte te vènghe a trué e nen te tröve,
ma ‘u penzjire da quà nen me löve!
Sènde angöre códdu viulüne
ca sunöve a ‘i festüne.
Püre ‘a lüne ce cumbiaciöve
e da söle ce ‘nvetöve
danne lüce ai purtechéte
fin’a ttarde llumenéte.
‘Na debbulèzze però te pegghjöve
quèdda méne te trascuröve.
Pe ‘nu pöche de renfòrze
all’imbjite starrìsse jògge.
Traduco per i non Manfredoniani:
Come il vento gonfia e fa partire le vele, (così) è partito l’albergo Daniele. Io ti vedo, palazzo mio, ancora ogi come prima. Stavi là, proprio al limite, fatto appositamente per (il rifresco ne)gli sposalizi. Quante volte ti vengo a trovare e non ti trovo, mail pensiero di quà non mi leva! Sento ancoira quel violino che suonava al festino. Pure la luna si compiaceva e da sé si invitava, dando luce ai porticati, fino a tardi illuminati. Una debolezza ti prendeva (a causa di) quella mano ti trascurava. Con un poco di rinforzo in piedi staresti oggi (Mostravi cedimento che fu sottovalutato: con qualche consolidamento ti saresti salvato)
Daràsse avv. = Distante, lontano
Va bene anche scritto da rasse= da lontano
Che è separato da uno spazio (non troppo ampio).
Deriva da arrassé = allontanare, distanziare.
Quanne me vüte a me, statte darasse! = Quando vedi me gira al largo.
Stèvene tutte quànde daràsse e nen li sendöve = Erano tutti distanti, e non li sentivo.
Baste ca sté ‘nu palme darasse dau cüle müje = Purché stia un palmo distante dal mio culo.
È un’espressione cinica ed egoistica, come per dire: faccia quello vuole, basta che non tocchi i miei interessi. A salvaguardia mia e dei miei beni, purché non lo prenda a quel servizio.
Dàrece de méne v.intr. = Venire alle mani, picchiarsi, litigare.
Enjinde che jì succjisse: ce so’ déte de méne jisse e ‘u màstre! = Non è cosa da nulla quello che è successo: sono venuti alle mani lui e il suo maestro artigiano.
Me so’ déte de méne pe Luìgge = Mi sono azzuffato con Luigi
È necessario distinguerlo da quello vegetale, frutto zuccherino della palma, che cresce e matura nei paesi caldi.
Il dattero di mare (Lithophaga lithophaga) è un bivalve che vive lungo le coste del Mediterraneo all’interno di gallerie scavate nella roccia calcarea grazie ad una secrezione mucosa erosiva. Il nome scientifico significa semplicemente “mangia pietre”
La sua crescita è estremamente lenta. Si è stimato che per raggiungere la lunghezza di 5 cm, un dattero impiega da 15 ai 35 anni.
La raccolta dei datteri vivi, ottenuta frantumando la roccia entro cui vive, è proibita tassativamente, a causa dell’enorme danno causato all’habitat marino.
Dé ‘a botte loc.verb. = Incolpare, accusare qlcu.
Alcuni dicono mené la bòtte. Alla lettera significa: lanciare la colpa, dare la colpa.
Incolpare qlcn anche senza averne le prove; attribuire ad altri la causa di un disagio, di un malore, o di qls magagna o evento negativo.
Löre fanne ‘i fatte, e a mè me dànne ‘a botte = Loro compiono i misfatti e a me danno la colpa.
Jìsse ho fatte ‘u chjìreche e ò menéte ‘a bòtte a me = Costui ha mollato un peto ed ha incolpato me.
Ne me danne a bòtte a mè, ca nen so stéte jüje. = Non accusare me, perché non sono stato io.
Se l’accusa non è palese, o diretta, ma lanciata in generale, si dice mené ‘a spennéte
Notate che la frase va costruita al dativo. Dé la bòtte (a chi?)… Come dire dare la colpa (agli altri, naturalmente). In italiano il verbo è diretto: io incolpo, accuso te, non a te. Questa è un’influenza della dominazione aragonese subita dal Regno di Napoli, prima di quella borbonica. Infatti in lingua spagnola che usa dire, ad es. ¿Has visto a Maria? = hai visto Maria?
Dé ‘a bòtte talora assume il significato di “somigliare vagamente” o “atteggiarsi” o “assumere lo stesso portamento di..”
Dé ‘a bòtte au pétre = È somigliante a suo padre. Si atteggia un po’ come suo padre.
Dé lènde loc.verb. = Sguinzagliare, slegare
Allentare il guinzaglio, liberare il proprio cane in modo che possa scorrazzare per i prati. In senso figurato lasciare i bambini liberi di sfrenarsi (ovviamente in spazi protetti).
E dàlle lènde a ‘sti criatüre, nen li tenènne sèmbe strìtte = E lasciali sfrenare questi bambini, non tenerli sempre vincolati a te.
La situazione va letta al contrario quando i figli crescono…
Sempre in senso fig. nen dé lènde significa vigilare discretamente sull’operato dei figli più grandicelli, per evitare loro di essere coinvolti in situazioni incresciose.
Nen li dànne lènde, ca se no pìgghjene male stréte = Non concedere troppa libertà, altrimenti (gli adolescenti) frequentano cattive compagnie.