Categoria: C

Capé

Capé (o Capéje) v.t. = Scegliere

Individuare, selezionare tra più cose in base a determinate caratteristiche di utilità per un fine, di convenienza in una circostanza, di idoneità ad un uso.

Generalmente si sceglie nel mercatino, tra i frutti della stessa specie, quelli che all’apparenza sembrano più sani e grossi, con disappunto del venditore che talvolta – come nella foto – esplicitamente vieta questa tendenza.
Tuttavia, ho sentito io stesso un vivace fruttivendolo che imboniva:
“Quande so’ bèlle i manderüne! Capéte, capéte! Jògge putüte capé! . Poi ripeteva in “italiano” per i forestieri che magari non potevano capire il dialetto: “Oggi potete capàre!”  Oggi potete scegliere, ma gli altri giorni no. Evidentemente non c’era bisogno di scegliere, perché i suoi mandarini erano tutti della stessa grossezza.

Te lu si’ capéte da jìnd’u mazze  a ‘stu bèlle jaròfene!= Te lo sei scelto dal mazzo (di fiori) questo  bel “garofano”!
Questa frase figurata, certamente detta in tono sarcastico e di rimprovero, veniva spesso rivolta a quella fanciulla che a suo tempo si era innamorata cotta di un mascalzone, e che ora sta passando delle tribolazioni a causa delle intemperanze di questo “garofano”.

Senza nulla togliere alla bellezza del fiore, credo che in questo caso la valenza negativa del garofano sia derivata dalla sua somiglianza con il cognome Garofalo, il “cattivo”, l’insidiatore di fanciulle ingenue, il ricattatore, il truce, in quei film di amore-gelosia-sangue, quei drammoni che tanto piacevano alle nostre nonne.

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Capellöre

Capellöre s.f. = Pettinatrice

Donna che si guadagnava da vivere dedicandosi ad acconciare i capelli a domicilio.

Copriva le spalle della cliente con una tela bianca, scioglieva e lavava i capelli, li pettinava accuratamente col pettine rado (‘a pettenèsse) e poi con quello fine (‘u pèttene) alla ricerca di eventuali focolai di pidocchi. Dopo l’asciugatura, riformava le trecce e le riavvolgeva a crocchia.

I lunghi capelli che restavano fra i denti del pettine e sulla tovaglia posata sulle spalle venivano raccolti accuratamente e inseriti in un sacchetto con chiusura a borsa di tabacco.

Quando il sacchetto era pieno diventava merce di scambio con uno specifico venditore ambulante. Difatti costui dava in cambio due saponette, o un pennello da barba, o una spazzola per abiti, o alcune scatole di lucido per scarpe, o cinque metri di elastico per mutande, ecc.

Presumo che i capelli umani di una certa lunghezza erano molto richiesti dalle fabbriche di parrucche: e se no che se ne facevano?

Il mestiere è passato quale soprannome a indicare una specifica famiglia.

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Capellüne 

Capellüne s.f. = Capigliatura

Di solito si intende una chioma, maschile o femminile, ben curata e ordinata, nonché la stessa pettinatura accurata.

Vüte a jìsse che bella capellüne ca töne! = Guardalo che bella pettinatura che ha!

Come neologismo è il plurale di capellöne = capellone, hippy, movimento giovanile degli anni ’60 caratterizzato dalla lunga capigliatura dei maschi.

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Caperröne

Caperröne s.m. = Mùrice

Singolare: Caperröne. Plurale: Caperrüne

Il Murice nostrano (Murex brandaris o Bolinus Brandaris) è chiamato ‘u caperröne gendüle , ossia il Murice gentile, perché chiaro e con gli aculei ben evidenti.
“La conchiglia è di circa 6–8 cm, munita di prolungamenti spinosi e dalla forma rigonfia allungata in una estremità del sifone, che invece è lungo e dritto. La superficie esterna è rugosa e percorsa da numerosi cordoncini spirali irregolari. La colorazione esterna varia dal giallo al bruno, lo stoma è ovale, dentellato sul margine esterno, dal giallo all’arancio” (descrizione copiata da Wikipedia).

Le carni sono apprezzate, perché di sapore dolce e profumate. Ci vuole pazienza perché la preparazione delle pietanze a base di caperrüne è piuttosto laboriosa: lavaggio, bollitura, estrazione dal guscio, asportazione della cosidetta ‘unghia’, ricottura nel sughetto, o condimento con olio, aceto e prezzemolo.

Gli antichi Fenici e Romani li apprezzavano sia in gastronomia, sia perché da essi estraevano un costoso colorante per tessuti pregiati, chiamato porpora.

L’altro tipo di murice, ‘ u caperrröne d’aspre , il murice di fondali rocciosi (Murex trunculus o Phyllonoptus Trunculus) non ha aculei, e si presenta con colorazione bruna, scura e all’interno striata di grigio e violetto.

Molto usati entrambii i tipi nella cucina locale. Ho provato recentemente pasta e fagioli condita con il sughetto di caperrüne… Era questa la cosidetta “cucina povera”.
Povera quanto vuoi, ma molto, molto gustosa!

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Capesciöle

Capesciöle s.f. = Nastrino, fettuccia.

Fettuccia di cotone usato per legature di federe di guanciale, di mutandoni lunghi, di sacchetti, di faldoni, di raccoglitori di documenti, ecc.

Vengono cucite ai bordi dei due lembi da legare.

Origine del termine: il grande filologo tedesco Gerhardt Rohlfs ipotizza che il termine possa derivare dallo spagnolo capichola, che indica una specie di  tessuto di seta.

Nel Salento è considerato un diminutivo di capišciu, ossia, cavezza, capestro, legaccio per sostenere le viti.

Con varie inflessioni, troviamo questo sostantivo in Puglia e in molte località della Basilicata.

Al plurale indicano, per estensione, cose di nessun valore. Vènne i capescöle = vendere fettucce di stoffa, fare commercio senza conseguire un apprezzabile margine di guadagno.

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Capetògne

Capetògne s.f. = Capriola, capitombolo

Accettabili le versioni capetonne o chépetonne.

Definizione della Treccani:
«Salto che si fa mettendo le mani o il capo a terra, slanciando le gambe in aria e rovesciandosi su sé stessi» 

I bambini la fanno per divertire se stessi; i clown le fanno multiple nei circhi per divertire gli altri.

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Capèzze

Capèzze s.f. = Briglia, cavezza

Briglia, fune che si mette alla testa dei cavalli o di altre bestie da soma per tenerli legati alla mangiatoia o per condurli a mano.

Può significare anche capestro, fune usata per le impiccagioni.

Mò ce ne vöne p’a capèzza ngànne = Ora se ne ritorna con la corda al collo.

Figuratamente si declamava questo detto per indicare qualcuno che in precedenza si era comportato da scapestrato (ecco che ritorna capestro) e alla fine, come il figliol prodigo della Parabola evangelica, se ne torna da suo padre.

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Capìcchje

Capìcchje s.m. = Capezzolo

È la protuberanza della mammella, da dove esce il latte, fatta alla maniera di piccolo capo.

Ovviamente la dimensione cambia dai mammiferi della specie umana o da quella animale (ovini, bovini, cetacei, suini ecc.).

Il termine è ormai desueto, perché le generazioni attuali, avendo frequentato le scuole dell’obbligo, usano un termine simil-italiano capèzzele

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Capìtele

Capìtele s.m. = Capitolo, corporazione religiosa

Collegio dei Canonici addetto al servizio della cattedrale. Si riunisce al completo in occasione delle solennità o per riti liturgici particolari a corollario del Vescovo (ordinazioni sacerdotali, processioni, ecc.).

Talvolta era invitato ad accompagnare nel tragitto fino alla chiesa per il rito funebre religioso, la salma di personalità importanti (ma quali importanti! Totò diceva che la morte è una livella…).

Era il cosidetto funerale di prima classe, che comportava anche il seguito di suore, orfanelli in preghiera e la banda musicale.

Cioè se qualcuno al funerale del caro estinto era facoltoso, poteva permettersi tutto questo corteo a pagamento. I meno abbienti facevano a meno anche dei fiori. Mamma mia!

Meno male che il Concilio ha abolito tanti fronzoli. Era ora.

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Capìzze

Capízze s.m. = capo, bandolo, inizio, parte estrema.

Ringrazio sentitamente l’amico Matteo Borgia jr per l’intera stesura del sottostante articolo, esempi compresi.

***

«È l’estremità libera di una matassa, di un gomitolo, di un rocchetto o di un rotolo, in italiano il bandolo. Deriva da “capo”, o meglio ancora dal latino capĭtium «estremità», e non va confuso con (clicca–>) capícchje , il capezzolo del seno, con cui condivide l’etimo, né con (clicca–>) capèzze, cavezza, briglia.

A volte è molto complicato riuscire a trovarlo, così scovare il bandolo o sbrogliare la matassa significa risolvere un problema, superare una difficoltà.

Analogamente, in dialetto capízze assume il significato di soluzione (di un problema), rimedio.
Nge sté capízze pe ‘stu mbrugghje =non c’è rimedio per questo imbroglio.
N’arrevéme a truué capízze =non arriviamo/non riusciamo a trovare il bandolo, a raccapezzarci.
Da notare che anche il verbo italiano “raccapezzarsi” ha lo stesso etimo.

A volte il rimedio può essere buono o cattivo.

Ricordo il mio maestro elettricista, Tonino Paravùzze Rinaldi che – quando le matasse di filo si imbrogliavano e diventava difficile trovare il capo giusto – diceva: pe truué u capízze bbùne ‘ma chjamé ‘u nucchìre! = per trovare il bandolo buono dobbiamo chiamare il nocchiere) .

Oggi il termine è in disuso, tranne forse tra i sarti o nella marineria.»
(Matteo Borgia)

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