Categoria: C

Calasciöne

Calasciöne s.m. = Calascione

Antico strumento musicale a corda, simile ad un liuto dal lungo manico e a tre sole corde, usato nel napoletano nel ‘700 assieme al mandolino.

Ma in dialetto, più che per indicare lo strumento, è usato questo sostantivo per descrivere, per indicare una persona goffa, un po’ allampanata.

Insomma è piaciuto il suono della parola (non dello strumento), un po’ come dire lambascione, o maccaröne, nel senso di fessachiotto.

Mò vöne Giuànne, assemegghje a ‘nu calasciöne = Ora arriva Giovanni. Sembra un spaventapasseri (non che il termine calasciöne significhi spaventapasseri, ma perché descrive la fugura allampanata e dinoccolata di Giovanni).

Ringrazio il lettore Salvatore Rinaldi per il suggerimento.

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Calé

Calé v.t. = Calare, tingere

1) Calé = calare. Far scendere lentamente, un oggetto sospeso; tramontare del sole; far capitolare le altrui convinzioni, riportare qualche dissidente alle proprie.

Uà calé = deve cambiare opinione, dovrà fare come penso io, capitolerà, non resisterà alla tentazione.

Figuratamente calé ‘a chépe = reclinare la testa significa: morire.

E mò möre Cìcce, uà vedì de chépe caléte! = Non è per ora che muore Ciccio, ne vedrà di teste reclinate!

Ossia vedrà morire tanta altra gente prima che muoia lui, notoriamente pellaccia dura

2) Calé = Tingere tessuti, indumenti.

Per la morte di un familiare si portava il lutto ristretto per anni.

Non tutti avevano la possibilità di comprare maglie, camicie e giacche nere. Allora si ricorreva alla tintura degli indumenti posseduti facendoli bollire in un pentolore assieme ad una polvere acquistata in astucci di castone nei negozi di merceria. Era prodotta dalla “Ditta Super Iride-Prato di Ruggero Benelli”, la stessa che fece la Cera Liù, il Super Faust al DDT.

Insomma i vestiti venivano ‘calati’ in acqua (come si dice in italiano calare la pasta) per la tintura.

Esistevano buste anche per altri colori. Si potevano calare ad es. camicie bianche e maglie chiare per farle diventare verde o arancione.

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Calecàgne 

Calecàgne s.m. = Calcagno, tallone

In anatomia così è detto l’osso più voluminoso del tarso. Comunemente e per estensione del termine, così viene identificata tutta la parte posteriore del piede.

M’ho muzzechéte ‘a scarpe e me döle tutte ‘u calecagne
 = Mi ha ferito la scarpa (stretta) e ora mi duole tutto il tallone.

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Calecasse

Calecasse s.m. = Carcassa   (←clicca),  bomba pirotecnica.

Il termine “calecasse” deriva dal greco antico “Kalkòs” che significa “rumore secco, forte”.   

Anticamente nel sec. XVII era una bomba incendiaria di ghisa lanciata con obici e mortai anche da navi da guerra.

Il nome (francese carcasse, inglese carcass  (←clicca)  si è tramandato in dialetto di generazione in generazione fino ai nostri giorni col suo significato originario di bomba.    In lingua italiana ha assunto anche un altro significato di carcame, carogna di animale, intelaiatura, ossatura.

Ai giorni nostri in dialetto designa una potente bomba-carta lanciata durante lo spettacolo pirotecnico.

Nel finale di una serata di giochi pirotecnici l’artificiere, ‘u sparapjizze (←clicca)=  di solito lancia tre calecasse, a intervallo di circa dieci secondi l’uno dall’altro, di potenza crescente. L’ultima potentissima deflagrazione annuncia agli astanti che lo spettacolo pirotecnico ha avuto termine.

Per estensione calecasse significa una stoccata, una battuta con un secondo significato, noto solo agli interlocutori presenti.

Nnüh! Ho menéte ‘nu calecàsse! = Oooh! Ha lanciato una botta!

Ringrazio Sator (Salvatore Rinaldi) per la precisa consulenza balistica.
Ringrazio altresì il prof.Michele Ciliberti per avermi fornito l’etimologia di questo sostantivo.

Leggete i commenti e le varie congetture formulate fino a quando non è saltato fuori l’etimo giusto.

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Calechére

Calechére s.f. = Calcificio artigianale

Si tratta di una fornace per la cottura del calcare.

Sappiamo tutti che la pietra comune, e  anche il marmo per intenderci, è un calcare, chimicamente detto carbonato tricalcico (CaCO3).

Da questo minerale si ottiene la calce in zolle mediante cottura ad alta temperatura in apposite fornaci a torre di pietra, alimentate da legna.

A Manfredonia ce n’erano un paio di queste  fornaci, produttrici di calce viva, scomparse con il procedimento industriale. Abbasce ‘a calechére ricordo era verso l’attuale Ufficio dei Vigili Urbani.

Nei cantieri le zolle di calce viva venivano “spente” con acqua in apposite vasche e diventavano grassello di calce, usato in edilizia per formare la malta.

Il termine è antico. I latini chiamavano  calcaria queste fornaci.

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Calefaténe 

Calefaténe (o calefatéres.m. = Calafato.

Il termine viene dall’arabo qualfat e qualafa

Operaio dei cantieri navali specializzato nel calafataggio, cioè nell’impermeabilizzazione dello scafo dei natanti.

Per calafatare si inseriva forzatamente della stoppa nella connessione del fasciame e si ricopriva con pece o catrame fuso.

L’eventuale minima infiltrazione faceva gonfiare la stoppa che così turava qualsiasi altro passaggio di acqua

Il termine calefaténe ha assunto una valenza negativa, perché il mestiere di per sé comporta un annerimento degli abiti da lavoro, e della faccia e delle mani dell’operaio.

Tutto ciò fa sembrare sporco l’operaio, anche se costui si lava accuratamente.

Vattì, assemìgghje a ‘nu calefaténe! (Va’ via, somigli ad un calafato!)

Si tratta anche di un soprannome

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Calèscìnne

Calèscìnne s.m. = Saliscendi

Sbarretta di ferro per chiudere porte e altri infissi, che si inserisce, mediante la rotazione della maniglia, nelle apposite feritoie o in apposite staffe. Si tratta di un termine tecnico, come (clicca →) zeremìnghe.

Credo che il termine derivi da calé e scènne = calare e scendere, e si dovrebbe dire “chéle-e-scìnne”. Io l’ho sentito proprio da un falegname pronunciata nel modo con cui l’ho riportato.

È chiamato generalmente anche ‘u ferrètte, almeno quello più semplice, con pomello, che si aziona a mano, senza maniglia, facendo scorrere l’asta, sia quella verso l’alto, sia quella verso il basso.

Con lo stesso termine calescìnne si designava un antico sistema per abbassare, secondo necessità, il lampadario a sospensione.
Il cavo elettrico passava, con un ingegnoso sistema di pulegge, attraverso un contrappeso che consentiva di calare il piatto luce all’altezza voluta.

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Calüche 

Calüche s.m. = Caligine, nebbia, bruma.

È un termine prettamente marinaresco forse in disuso, soppiantato nel linguaggio corrente dal più snello nègghje, bisillabo comprensibile anche dalle popolazioni terricole (professionisti, artigiani, pastori, contadini, carrettieri, ecc.).

Probabilmente deriva dal tardo latino caligare = oscurarsi, annebbiarsi.

Provo a dedurre un’altra etimologia: ritengo che possa derivare da “calare”, nel senso che cala la visibilità. In italiano si dice anche: cala la nebbia.

Ecco la definizione di Wikipedia:
“La nebbia è il fenomeno meteorologico per il quale una nube si forma a contatto con il suolo. È costituita da goccioline di acqua liquida o cristalli di ghiaccio sospesi in aria. A causa della diffusione della luce solare da parte dell’acqua in sospensione la nebbia si manifesta come un alone biancastro che limita la visibilità degli oggetti”.

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Calzatüre

Calzatüre s.m. = calzatoio

In italiano ottocentesco  era chiamato anche “corno” perché ricavato dall’appendice ossea dei bovini.

Si può chiamare anche cavezascarpe

Piccolo oggetto di metallo, o di plastica che aiuta ad indossare le scarpe, facilitando con un’azione a scivolo, l’alloggiamento del tallone all’interno di esse.

Quando ero giovinotto qlcu lo chiamava ‘u calzànde, ma forse era preso a prestito da altri dialetti che si sentivano durante il servizio militare, a contatto con gente di tutta Italia.

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Cambanére

Cambanére s.m. = Campanile

Torre che affianca o sovrasta una chiesa e che contiene nella parte più alta le campane. Nella foto d’epoca, il “nostro” speciale amato campanile dell’Orsini, uno dei pochi staccato dal corpo dell’edificio della chiesa.

Con questo termine una volta si designava anche la corata, a curatèlle di agnello o di capretto (trachea, cuore, polmoni, fegato), appesa con gancio all’interno delle macellerie in esposizione.

Era la carne dei poveri, con cui le nostre brave nonne preparavano un gustoso soffritto o dei piccoli deliziosi turcenjille.

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