Cistarjille s.m. sopr. = Cestino, panierino.
E’ diventato soprannome dal mestiere di cestaio.
Ovviamente le donne di questa famiglia sono cestarèlle, al femminile
Cistarjille s.m. sopr. = Cestino, panierino.
E’ diventato soprannome dal mestiere di cestaio.
Ovviamente le donne di questa famiglia sono cestarèlle, al femminile
Cìtte-e-cìtte s.m. = Cipria per belletto.
Per ravvivare le gote, le nostre nonne usavano una cipria colorata di varie sfumature di rosa.
Bisognava usarne pochissima se no sembravano maschere di carnevale!
Allora due colpetti col batuffolo, uno di qua e uno di là: citte-e-cìtte.
Il trucco doveva essere discreto, infatti alla lettera il sostantivo significa: zitta-e-zitta, lo sappiamo solo io… e me stessa.
Moh, mìttete ‘nu pöche di cìtte-e-cìtte! = Dài, mettiti un po’ di cipria (sulle guance)!
Stranamente ha un’assonanza con il celebre motivo americano cantato in duettobda Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald: “Cheek-to-cheek” [pronuncia cikttucik] = guancia a guancia.
Ciuccètte s.m. = Succhiotto
Tettarella di gomma. Se bucata viene data, attaccata alla bottiglietta del latte detta biberon, da succhiare ai poppanti. In italiano dicesi ciuccio
Se invece non è bucata, si mette in bocca ai bambini (spec. ai lattanti) per calmarli o per farli addormentare. In italiano dicesi succhiotto.
Quando qlcu ragazzo adduce la tenera età per esimersi da un’azione rischiosa, si dice: mo’ l’hamm’e dé ‘u ciuccètte = Ora dobbiamo dargli il succhiotto!
Ciucchetèlle s.m. e sopr. = Teschio, cranio.
L’insieme delle ossa del cranio; specificamente designa la testa scarnita di un cadavere disseppellito.
Per sineddoche (scusate la brutta parola, che significa una parte per il tutto), ciucchetèlle anche indica l’intero l’apparato scheletrico umano
Un disegno stilizzato è universalmente riconosciuto quale segnale di avvertimento in presenza di grave pericolo.
Difatti compare sui contenitori di veleni, sui pali dell’alta tensione, ecc.
Di forma bianca, con tibie incrociate, il disegno stilizzato compariva sulla bandiera nera delle navi dei corsari.
Il termine ciucchetèlle presumo che derivi da ciòcche, antico nome garganico che indica la testa umana. Un po’ come l’abruzzese còcce, coccia.
Con il noto fenomeno linguistico detto metatesi – ossia lo spostamento di vocali o consonanti o sillabe all’interno della stessa parola (es. pietra = pröte; capra = crépe) – còcce coccetèlle = testolina sono diventati ciòcche e ciocchetèlle e ciucchetèlle.
Anticamente ‘coccia’, nel senso di guscio duro, di conchiglia, o di noci, o come vaso di terracotta, era usato anche in italiano (vedi cocciuto, cocciutaggine, essere di coccio = testardo, testardaggine, essere caparbio).
Esiste da noi anche il soprannome Ciucchetjille, al maschile. Il poverino aveva il volto molto magro e incavato come ‘na ciucchetèlle = un teschio.
Ciucculatöre s.f. = Cuccuma
Bricco di rame o di altro metallo usato per contenere il caffè o sim.
Quella in uso da mia nonna era di ferro smaltato, blu all’esterno e bianca all’interno. Aveva un lungo beccuccio e il coperchio incernierato. Capacità mezzo litro.
Si poneva colma di acqua sul fuoco fino all’ebollizione. Poi si mettevano nell’acqua bollente, udite udite, due – dico due – cucchiaini di caffé macinato, e si toglieva dal fuoco e si lasciava riposare qualche minuto.
La brodaglia, opportunamente filtrata con un colino metallico, si versava nelle tazze e veniva chiamata indegnamente “caffè”…
Nel periodo delle Sanzioni Economiche imposte all’Italia. perché aveva occupato l’Etiopia, dalla Società delle Nazioni, non si importava il caffé (né ferro, carbone, baccalà, aringhe, tabacco, frumento, ricambi di macchine agricole inglesi, ecc. ecc.), Insomma vigeva l’embargo internazionale.
Il “caffè” che l’Autarchia, sistema economico di auto sufficienza, proponeva agli Italiani era un misto di chicchi di orzo e cicoria abbrustoliti e macinati.
Si preparava con la cuccuma in casa. Non so se allo stesso modo la servivano ai pochi avventori nei tre bar di Manfredonia (Adolfo Castriotta, Aulisa e Giannino Gatta)
Immaginate che schifezza, anch’essa chiamata pomposamente “caffè”.
A pensarci bene anche i tedeschi e i francesi, per mia constatazione personale, fanno così tuttora il loro orrendo caffé. Credo che si chiami “caffé alla turca”. Puah!
Il nome significa cioccolatiera e deriva da cioccolata, perché in principio serviva a preparare la cioccolata calda.
Qualcuno pronuncia ciucclatöre.
Ciüma dòlce s.f. = Senape campestre
Pianta annua (Sinapis arvensis‘a sìnepe è conosciuta meglio come ‘a ciüma dolce [femm. plurale ciüme dólce]= la cima dolce, può considerarsi una vera e propria verdura campestre. Si chiamano le “cime dolci” per differenziarle dalle simil “cime amare”, le ciüme amarèlle o ciümamarèlle) (Brassica incana o fruticulosa) = cime amarognole.
Nasce spontanea nei prati, dall’aspetto filiforme e dal gusto simile alle cime di rapa, e cresce in zone a clima temperato/caldo.
Nella nostra zona era apprezzata proprio per il suo sapore dolce, simile alle bietoline di campo. Ora non ne vediamo più, forse per effetto di pesticidi.
Qualche vecchietta oltre al più familiare ciüme dólce li chiama un po’ storpiandone il nome, ‘i sìlepe invece del più corretto sìnepe.
In Sicilia adoperano i piccoli semi tritati per farne una salsa, la famosa senape dal sapore piccante.
Ciüme s.f. = Cavolfiore
Il Cavolfiore (Brassica oleracea botrytis) è un ortaggio con infiorescenza carnosa compatta, a forma di palla, di colore bianco–gialliccio
La parte commestibile è costituita da gemme florali ramificate, i cui peduncoli ravvicinati ingrossando formano una grossa palla carnosa detta “corimbo”.
Dim. cemarèlle
Quelli che dicono càvele-a-ffiöre parlano un dialetto addomesticato.
Alla lettera significa: cima, la parte superiore del cavolo che fuoriesce dalle bratte.
Foto fornita da Gigi Lombardozzi.
Ciüme amarèlle s.f. = Cime amarognole
Scusatemi, ma non so il nome corrispondente in lingua italiana. Aspetto qualche suggerimento da esperti botanici.
Cliccate sull’immagine per ingrandirla.
Pianta spontanea (Brassica campestris) apprezzata dai nostri nonni, che le raccoglievano per farne un piatto gustoso, le famose “fogghje meškéte” = verdure miste.
L’occhio esperto le distingue dalle cime dolci (i sìnepe). Il palato anche se inesperto, perché evidentemente queste erbe hanno un retrogusto po’ di amaro, come le cicorie.
Ciüme de répe s.f. = Cime di rapa
Le cime di rapa (Brassica Campestris Cymosa) sono i racemi non ancora fioriti dell’ortaggio, di cui si mangiano le foglie più tenere e le infiorescenze.
È un ortaggio tipicamente italiano ma, introdotta dagli emigranti, ora si coltiva anche negli Stati Uniti e in Australia. In Italia il 95% della superficie coltivata si trova in Lazio, Puglia e Campania.
Nel Nord America è conosciuta con i nomi di “broccoli raab”, “raab”, “rapa”, “rappini o rapini”, “spring broccoli”, “italian turnip” e “taitcat”.
La cima di rapa, in Puglia, che è la regione regina della coltivazione di questo ortaggio, è inserita nell’Elenco dei Prodotti Tradizionali Regionali. Famosissimo il tipico piatto di orecchiette con le cime di rapa, condite con il semplice ùgghje crüde = olio crudo, o con l’agghja suffrìtte = olio,aglio, acciughina e peperoncino. In Basilicata ho visto che aggiungono nel padellino dell’olio che frigge anche del pane sbriciolato.
Nel nord Italia è invece un prodotto meno conosciuto, soprattutto perché non vi sono piatti tipici tradizionali legati alla cima di rapa come avviene nel meridione.
Sono da consumarsi previa cottura ed hanno un sapore molto caratteristico, leggermente amarognolo e piccantino.