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Bruzzöne 

Bruzzöne s.m. = Giaccone pesante e privo di qualsiasi ricercatezza.

In effetti si tratta di un giaccone, talvolta senza maniche, ricavato dal vello degli ovini cucito grossolanamente.

Usato dai pastori che menano al pascolo le loro greggi. Utilissimo a questa gente che doveva restare tutto il giorno al’aperto, sotto i rigori del freddo invernale.

Era confezionato con la pelle all’interno e la lana all’esterno.

Siccome i pastori nella Puglia piana, per l’antichissima consuetudine della transumanza – ossia lo svernamento delle pecore, condotte attraverso i tratturi, dalle zone montuose innevate al Tavoliere delle Puglie – erano abruzzesi, presumo che l’indumento fosse tipico di quella gente. Ecco perché si chiama bruzzöne, come per dire di foggia abruzzese.

Più tardi, e questo lo ricordo bene, è passato a designare qls indumento pesantissimo che tenesse caldo.

Te sì mìsse ‘nu sorte de bruzzöne! = Ti sei messo (addosso) cotal tabarro!

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Buàtte

Buàtte s.m. = Scatola.

Scatola di latta usata per conservare cibi.

Si tratta del termine francese boîte che si pronuncia allo stesso modo, ma è femminile in quella lingua (la boite, pronuncia: la buàtte). In napoletano si dice proprio ‘a buàtte.

In francese è usato per indicare anche scatole di legno o di cartone per riporre scarpe, camicie, cioccolatini, vino e per imballaggio in genere.

Durante il periodo dell’Esistenzialismo di Sartre e Camus, era chiamato boîte anche il locale dove si riunivano i giovani seguaci di questa corrente filosofica, di moda negli anni ’50.

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Bubbüje 

Bubbüje s.f. = Bua, ferita

Nel linguaggio infantile indica il dolore fisico, un’escoriazione, o una contusione.

Uuuh!, quedda fìgghje, c’jì fatte ‘a bubbüje! Tèh, tèh, dàlle mazzéte alla pòrte! = Uh, quella figlia si è fatta la bua! Tiè, tiè, colpisci lo stipite della porta che ha causato il dolore!

Insegnamento edificante sulla necessità di ricorrere alla vendetta: occhio per occhio, dente per dente.

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Buccàcce

Buccàcce s.m. = Vasetto di vetro

Principalmente è usato, opportunamente chiuso con il coperchio a tenuta, per contenere cibi (marmellata, pomodori pelati, carciofini, lampascioni, olive, ecc.) sia quelli conservati industrialmente, sia quelli domestici.

Dim. buccaccètte (di dimensione ridotta per contenere omogeneizzati, filetti di acciughe, capperi, ecc.)

Esistono anche quelli con chiusura di vetro a macchinetta con guarnizione in gomma.

Ecco quelli che si trovano su Amazon.

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Bufanüje

Bufanüje s.f. = Epifania

Dal latino epiphanìa, a sua volta derivato dal greco ἐπιϕάνεια, epiphàneja = apparizione, comparsa, manifestazione.
Il nome completo della ricorrenza è “Epifania del Signore”. Più specificamente significa manifestazione agli uomini della divinità di Cristo, riconosciuta per prima dai pastori e dai Magi recanti doni.
Difatti essi riconobbero in Lui il Messia, il Figlio di Dio venuto sulla Terra.
Il Vangelo di Matteo (Mt 2.1,2) è molto stringato:  Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo».

I nostri nonni chiamavano questa Festa Pasqua-Bufanüje per distinguerla dalla Pasqua più solenne, la Pasqua di Resurrezione, nonché dalla Pasque-i-crüce = Pasqua delle croci, che celebrava forse un’altra ricorrenza cristiana della quale, veramente, mi sfugge la collocazione nel calendario cattolico, per quanto abbia frugato nella mia memoria storica.

Le persone ultrasettantenni ricordano che la sera della vigilia, il 5 gennaio, dopo cena, si accendevano dei lumini ad olio davanti ai ritratti dei defunti e si lasciava il desco apparecchiato.

Era credenza che durante la notte passassero le anime degli antenati a farci visita e bisognava spazzare con cura il pavimento per evitare che briciole di pane o noccioli di olive caduti accidentalmente potessero recare disturbi al loro lieve camminare per casa.

Mia nonna, nata nel 1878, dopo il cerimoniale dei lumini, si metteva a letto e annunciava, in modo che noi nipotini potessimo sentire, il Titolo delle sue preghiere: “Cjinde crüce e cjinde Avemmarüje per saluté la Pasqua-Bufanüje” = Cento segni di Croce e cento Ave Maria per salutare la Pasqua-Epifania. E cominciava la sua lunga preghiera.

Sono sicuro che soccombeva stramazzata per il sonno dopo poche poste….

Vuoi vedere che questo rito dei cento segni di Croce abbia dato il nome alla succitata Pàsque-i-crüce, ed era semplicemente un sinonimo di Pasqua-bufanüje?

Qualche sua coetanea più vivace raccontava che esisteva un trucco per rendere visibili le anime dei defunti che in processione scendevano sulla Terra. Ossia bisognava raccogliere nel corso di un anno tutto il cerume secreto dalle orecchie e farne una pallina.  In essa si doveva conficcare un minuscolo lucignolo e dargli fuoco. Alla luce fioca di questa schifezza usata come candela si sarebbero viste le anime vaganti dei propri cari.

Io credo che era questo semplicemente un invito a tenere pulite le orecchie – in assenza di cotton-fioc, inventato decenni dopo – magari “scavando” con uno di quei ferrettini per capelli. Puah

Il lettore Domenico Palmieri, che ringrazio di cuore, mi riferisce che i suoi genitori in questa ricorrenza solevano ripetere: «Tutt’i fèste jèssere e venèssere ma före d’a Pasqua Bufanüje», ossia “tutte le feste andassero e ritornassero, ma all’infuori della Pasqua Epifania”.

Questo lo avrebbero esternato  con rammarico le anime dei defunti, le quali, pur avendo ricevuto il permesso  di rientrare nelle case dei propri cari per questa Festa, non avrebbero potuto restarvi più a lungo, né abbracciarli e parlare con loro.

A proposito di doni vogliamo parlare della amatissima Befana? La gioia dei nostri bimbi!
Il lettore Matteo Borgia 2° ha composto questa graziosa filastrocca:

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Bummenére

Bummenére sm = Licantropo

L’etimologia di licantropo, come tutti i termini scientifici, deriva dal greco λυκάνθρωποςlyco, lupo e antropos, uomo). Taluni si rifanno al latino lupus, lupo e maniarius, affetto da mania.

Nel corso dei secoli probabilmente lupus maniarius  è diventato lu pumaniaru e poi lu pumanére, e da qui ‘u bumenére

Dai Manfredoniani ‘u bummenére era ritenuto una persona misteriosa e terrificante.

Erano due o forse tre gli uomini sospettati di esserle licantropi.   La leggenda fiorita su queste persone è ricca di particolari:

Si diceva che ululassero di notte e rincorressero i malcapitati nottambuli per aggredirli!

Questi si salvavano dalla sua aggressione solo in due casi:

  1. se riuscivano a infilare una scalinata e percorrerla per almeno tre gradini. In questo caso l’inseguitore avrebbe rinunciato ad asfferrare la preda perché non in grado di continuare l’inseguimento in salita;
  2. se possedevano un coltello tascabile, pieghevole, dal manico rigorosamente nero.

Nell’ipotesi 2.  gli inseguiti avrebbero dovuto possedere anche una notevole dose di sangue freddo. Difatti durante la orsa per sfuggire all’inseguitore, dovevano estrarre il coltello dalla tasca, aprirlo, tracciare con la lama nel terreno un cerchio e  due tagli intersecati al centro,  piantarvi l’arma per terra e posizionarsi ritti all’interno del cerchio che sarebbe diventato una barriera invalicabile.

Troppe le operazioni richieste mentre incombeva l’inseguitore ululante alla calcagna, e coordinare i movimenti nella foga della corsa!

Insomma non c’era scampo: perciò… era meglio restare a casa per evitare brutti incontri!

Infine si dava per certo il fatto che costoro trasmettessero i loro “poteri” in punto di morte, toccando con la mano uno di quelli che si raccoglievano al suo capezzale per assisterlo (come nella leggenda di Dracula).

Secondo me i cosiddetti bummenére erano dei poveri malati che uscivano di notte a causa della loro spasmodica fame di aria, e che sicuramente non avevano la forza di rincorrere né di fare del male a nessuno.

Sono portato a credere che fossero semplicemente dei buontemponi che si burlavano i paesani.
L’amico Domenico Palmieri riferisce testualmente:
«M
olti dei nostri arguti vecchi sostenevano che erano “femminari” incalliti che, per non farsi vedere o conoscere mentre andavano dalle loro “comari”, si inventavano questa “stranezza” e impedire agli insonni, di affacciarsi alle porte dopo una certa ora.»

Scientificamente in psichiatria si definisce la licantropia un delirio melanconico per cui l’ammalato si crede trasformato in lupo e ne imita l’ululato.

Esiste la locuzione Fé ‘u bummenére, col significato di agitarsi e di lamentarsi a lungo. Tossire spasmodicamente, Avere attacchi d’asma con reali difficoltà respiratorie.
Stanotte marìteme ho fatte ‘u bummenére = Questa notte mio marito non ha dormito lui, e non ha fatto dormire nemmeno me, a causa di suoi incessanti attacchi di tosse.

Si definiscono bummenére anche quelli che fanno vita da nottambuli.
Che jéte facènne!  ‘Sti bummenére! = Ma cosa andate facendo?  Questi incalliti nottambuli!

In Basilicata viene denominato lupòmene storpiatura del latino lupus e hominis? = lupo-uomo, o uomo-lupo.

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Bunazze

Bunazze s.f. = Bonaccia

Calma di vento e di mare.
Bunazza morte indica la calma piatta del mare. “Jogge je bunazza morte”.

La totale assenza di vento durante la navigazione in mare, o durante le battute di pesca, quando le imbarcazioni erano tutte remo-veliche, costringeva gli uomini ad una lunghissima ed estenuante fatica di braccia ai remi per far rientro a casa.

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Bùne-crestjéne

Bùne-crestjéne loc.id. = Buono uomo, signore

Alla lettera significa buon cristiano, ma ho detto già che crestjéne da noi significa ‘persona, individuo, soggetto’, non ‘seguace del Cristianesimo’.

Giuànne jì ‘nu bùne-crestjéne = Giovanni è un buon diavolo, una brava persona,

Si fa riferimento al fatto che è una persona onesta, incapace di azioni disoneste.

Bùne-crestjéne, pronunciato con un certo tono sommesso, ha valore esortativo:

Sjinde a me, bùne-crestjéne, vattìnne a càste ca quà nen ce sté njinde = Dammi retta, signore, vattene a casa tua, perché qui non c’è niente (che possa interessarti e se permani qui la tua presenza può scatenare reazioni disordinate).

Meh, bùne-crestjéne, fàcce passé da quà! = Suvvia, buon uomo, ci lasci attraversare il suo campo!

Può essere detto anche in tono minaccioso:

Uhé, bun-crestjéne, se vù i chelómbre accattatìlle, e no ca li sté cugghjènne ‘mbàcce a l’àreve nustre! = Ehi, amico, se vuoi i fichi fioroni va a comperarteli, e non raccoglierli dagli alberi di nostra proprietà!

È chiaro che questo è un esempio linguistico. Non so se nella realtà, uno che vede che gli stanno rubando i fichi possa avere la garbatezza di pronunciare quella frase o si presenta direttamente con un randello…..

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Burdescé

Burdescé v.i. = Bordeggiare

Nella navigazione a vela, viaggiare controvento facendo una rotta a zig-zag molto ampia.

Per estensione significa barcollare e figuratamente barcamenarsi, destreggiarsi tra le difficoltà.

L’espressione divertita : “Vé burdescjànne accüme alla vàrche de Cianèlle” si riferisce a qualcuno che esce ubriaco dall’osteria, e cammina barcollando e  qua e di là.
Il paragone con la barca di tale “Cianella” e solo casuale. Qualsiasi imbarcazione (a vela) per navigare controvento deve andare di bolina, ossia deve percorrere a zig-zag il tratto di mare.

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Burràgge 

Burràgge s.f. = Borragine

È una pianta erbacea annuale (Borago officinalis). Ha foglie ovali ellittiche, picciolate, verdi-scure raccolte a rosetta basale lunghe 10-15 cm e poi di minori dimensioni sullo stelo, che presentano una ruvida peluria. I fiori presentano cinque petali, disposti a stella, di colore blu-viola.

In dialetto è detta anche burràcce.

Nelle altre lingue: Bourrache (F), Borage (GB), Boretsch (D), Borraja (E)

Attualmente l`uso gastronomico della Borragine si è maggiormente diffuso nell`Italia meridionale. Le giovani foglie si consumano crude in insalata, dopo averle tritate e mescolate con altri erbaggi o con pomodori. La rigidità dei peli svanisce per effetto dell`aceto.

Le stesse foglie, come pure le cime, vengono consumate lessate e poi condite con olio e limone oppure saltate al burro, strascicate con olio e limone. La migliore riuscita, almeno nel Tavoliere, è quella di cuocerle come le cime di rape con la pasta.

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