Autore: tonino

Paprecchjöne

Paprecchjöne agg., s.m. = Sciocco, fessacchiotto

Generalmente è riferito a persona insulsa, facilmente raggirabile, un po’ ingenua, tarda nell’agire.

‘Stu paprecchjöne pe ‘nzacché ‘nu chjuve ce mètte mezza jurnéte! = Questo sciocco per piantare un chiodo impiega mezza giornata.

Probabilmente derivato da papero.
Per il femminile l’italiano similmente usa “oca” per dire sciocca.

Credo che per definire in dialetto le stesse “qualità” al femminile basti un semnplice “pàpre” = papera, oca.

Angöre mò ce arretüre ‘sta pàpre = Solo adesso rientra, questa sciocca.

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Sèggia Manzegnöre

Sèggia manzegnöre loc.id = Seggio episcopale, cattedra vescovile, faldistorio

In questo caso non si fa riferimento alla vera e propria sedia usata dal Vescovo, il monsignore durante la liturgia cui partecipa.

Si intende invece quell’antico gioco fanciullesco che in italiano era detto “gioco del predellino”.
Due bambini si pongono di fronte. Ognuno afferra con la propria destra il polso sinistro e con la mano sinistra il polso destro dell’altro.
Come si vede nella foto, si forma una specie di quadrato sul quale si siede un terzo bambino che viene così trasportato, come su una sedia gestatoria, per un tratto prestabilito, cantilenando:

‘A sèggia manzegnöre e ce assètte lu segnöre…= La sedia gestatoria su cui si siede signore…

Salvo poi a mollarlo a sorpresa, ad un cenno di uno dei “portantini”.
I bambini hanno le ossa di “gomma”, e fortunatamente non riportano conseguenze nel cadere sul pavimento.

Tutti quelli di età prescolare, in mancanza di giocattoli, si sono trastullati con questo giochetto.
Ora si sollazzano con le play-stationiPad o altre diavolerie: tutti giochi individuali. Puah!

Questo sistema “a sedia gestatoria” viene usato dagli adulti (Pompieri, Soccorritori della Protezione Civile, Medici del 118 ecc.)  nei casi di soccorso immediato a feriti da accostare all’autoambulanza, ove non si possa accedere la lettiga.
Ovviamente senza cascata finale!

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Scrüme

Scrüme s.f. = Scriminatura, riga

Linea di spartizione dei capelli.
È la linea che divide le ciocche dei capelli orientandole in due direzioni diverse.

Pòrte sèmbe a scrüme a dritte = Mi pettino sempre con la scriminatura a destra.

Gli uomini del ‘900 usavano pettinarsi con la scriminatura rigorosamente al sommo del capo (‘a scüme a mìzze). I capelli impiastricciati di brillantina (a olio o a pomata) e apparivano rigorosamente lucidi e attaccati ai due lati del cranio, a prova di vento.

I ragazzi dagli anni ’80 nostra epoca hanno usato la gommina, un gel per capelli, con lo stesso effetto “bagnato” ma col vantaggio di non ungere, salvaguardando dall’unto i colletti, le sciarpe e  i guanciali.

Anche questo sostantivo ha diretta derivazione dal latino discrimen = separare, dividere.

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Accunté tutt’i püle

Accunté tutt’i püle loc.id. = Pettegolare, spifferare, spiattellare.

Alla lettera questa locuzione un po’ strana significa “raccontare tutti i peli”, ma è certamente più rispondente il significato di “raccontare per filo e per segno”.

Riferire senza riguardo cose riservate o segrete, sia per irresponsabile loquacità sia per malignità.

È spesso detto come un rimprovero verso qualcuno che usa sbandiera ai quattro venti ogni accadimento familiare, grande o piccolo.

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Fresüle

Fresüle s.m. = Intestino retto

Questo termine anatomico, ormai è desueto. Tuttavia l’ho inserito – dietro suggerimento del dott. Matteo Rinaldi – perché resti memoria.
L’issüte ‘u fresüle da före = gli è uscito l’intestino di fuori. In termini medici: avuto un prolasso del retto.

Questo può avvenire per un immane sforzo fisico.

Gli sportivi sollevatori di pesi, durante le loro prestazioni spesso si lasciano sfuggire una semplice scorreggia…. Ma questo è il meno!

Collegato a questo sostantivo, sempre il dottor Rinaldi mi ha graziosamente imbeccato il verbo sbreselàrece, ossia sforzarsi all’inverosimile, tanto da riportare come conseguenza un vistoso prolasso intestinale.

Nota linguistica:
Quasi sempre, fateci caso, il gruppo consonantico “nfr”, viene mutato in dialetto in mbr. Esempi:
Manfredonia = Mambredònje,
In fronte = mbronte,
Infracidito = mbracetéte.
Lo stesso dicasi con il nostro fresüle che nel teorico “sfrisolarsi” diventa sbreselàrece.

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Abbabbjé

Abbabbjé v.t. = Abbagliare, confondere, obnubilare

Offuscare qlco.; indebolire l’attenzione o la capacità di vedere o di comprendere; ottenebrare; confondere la mente.

So stéte abbabbjéte: nen capìsce chjó njinde! = Sono stato intontito, non capisco più niente!

Intontire qlcu con l’intento di raggirarlo.

Nella forma riflessiva significa intontirsi: sentire l’effetto del’alcol, dell’innammoramento, delle droghe, della stanchezza.

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Capìzze

Capízze s.m. = capo, bandolo, inizio, parte estrema.

Ringrazio sentitamente l’amico Matteo Borgia jr per l’intera stesura del sottostante articolo, esempi compresi.

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«È l’estremità libera di una matassa, di un gomitolo, di un rocchetto o di un rotolo, in italiano il bandolo. Deriva da “capo”, o meglio ancora dal latino capĭtium «estremità», e non va confuso con (clicca–>) capícchje , il capezzolo del seno, con cui condivide l’etimo, né con (clicca–>) capèzze, cavezza, briglia.

A volte è molto complicato riuscire a trovarlo, così scovare il bandolo o sbrogliare la matassa significa risolvere un problema, superare una difficoltà.

Analogamente, in dialetto capízze assume il significato di soluzione (di un problema), rimedio.
Nge sté capízze pe ‘stu mbrugghje =non c’è rimedio per questo imbroglio.
N’arrevéme a truué capízze =non arriviamo/non riusciamo a trovare il bandolo, a raccapezzarci.
Da notare che anche il verbo italiano “raccapezzarsi” ha lo stesso etimo.

A volte il rimedio può essere buono o cattivo.

Ricordo il mio maestro elettricista, Tonino Paravùzze Rinaldi che – quando le matasse di filo si imbrogliavano e diventava difficile trovare il capo giusto – diceva: pe truué u capízze bbùne ‘ma chjamé ‘u nucchìre! = per trovare il bandolo buono dobbiamo chiamare il nocchiere) .

Oggi il termine è in disuso, tranne forse tra i sarti o nella marineria.»
(Matteo Borgia)

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U Manzegnöre de Tréne

‘U Manzegnöre de Tréne
ce lu töne sèmbe mméne.
Ce lu töne strìnde-strìnde,
mizze da före e mizze da jìnde.

Il Monsignore di Trani
se lo tiene sempre in mano.
Se lo tiene stretto stretto,
metà fuori, e metà dentro.

La FALSA risoluzione, un po’ maliziosa e irriverente, fa pensare all’Alto Prelato quando va a fare pipì…

Invece la soluzione VERA si riferisce all’Anello Pastorale

È chiaro che il soggetto, il “Monsignore di Trani” è puramente indicativo (poteva essere il Sindaco di Merano, il Prefetto di Milano, il Re napoletano, il Medico di Cagnano, ecc.) solo per fare rima con “mano”.

Naturalmente l’anello è si porta infilato a un dito della mano..
Metà “fuori”, indica quella parte dell’anello visibile dalla parte del dorso, quando la mano è stesa o serrata a pugno; la metà “dentro” è quella nascosta dal pugno o palesata a mano aperta, osservata dalla parte del palmo.

Vi invito a leggere l’altro Monsignore cliccando qui

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Pannazzére

Pannazzére s.m. = Venditore di stoffe

Il venditore di “panni”, cioè tessuti, stoffe e fodere per abiti, ecc.

Una volta il commercio era prevalentemente svolto da venditori ambulanti, con un carrettino tirato da un ciuchino o spinto da un ragazzino.

Ricordo diverse categorie di ambulanti: fruttivendoli, lattai, carbonai, piattai, arrotini, stagnini, fornai, merciai (bottoni, candele, lucido per scarpe, spilli, elastico per mutande, aghi e ditali, ecc.) e lavoranti a domicilio, chiamati al bisogno (lavandaie, materassai, pettinatrici, pseudo-infermieri per le iniezioni).

C’era addirittura un “dentista” ambulante, un praticone cavadenti, detto türa-jagnéle = tira-molari.

Nel nostro caso il pannazzére era il fornitore specifico per sartorie da donna e da uomo.
Anche richiesto da casalinghe per confezionare in casa lenzuola, federe, mutande e sottovesti.
Addirittura le nostre mamme erano così brave da confezionare camicie da uomo e tovaglie ricamate.

Con la scomparsa della figura dell’ambulante, il termine pannazzére è ormai fuori uso, come il più antico sinonimo (clicca→) scitére (dall’arabo shitan)= panno, tessuto, stoffa.

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Scurcé

Scurcé v.t. = scorticare, scuoiare

Verbo derivante da scorza, corteccia.

Nella forma scurciàrece significa procurarsi delle escoriazioni sul corpo, sugli arti, per esempio a seguito di una caduta dalla bicicletta.

L’amico Matteo Borgia junior mi suggerisce l’aggettivo scurcéte per indicare un difetto, un graffio, un’abrasione su una superficie liscia, come un mobile o una scarpa, o una parete.

Scurcéte riferito persona indica la sua testa calva o con vistosa alopecia (chierica pronunciata).

Mio padre mi raccontò un gustoso episodio (inventato o accaduto) che esasperava gli sfottò quotidiani tra il curato (gobbo) e il sacrista (semi-calvo). A quell’epoca il prete celebrava la Messa di spalle all’assemblea e rigorosamente in latino. Ad un certo momento della liturgia doveva voltarsi verso i fedeli intonando “Dominus vobiscum” ed aspettarsi la risposta “Et cum spiritu tuo”.
Invece per sfottere il sagrestano, cantò «Dominus scurcizzum». La risposta del sacrista fu immediata «Et cum sgubbizzu tuo!»

Figuratamente in forma di sostantivo ‘nu scùrce, indica una seccatura, un intoppo, e di aggettivo designa una persona inopportuna, intrusa.

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