Ce mètte ‘ndustéte e ce löve ammuscéte
Si mette duro e si toglie floscio.
‘I maccarüne jìnd’a cavedére= La pasta dentro la pentola.
Quando si cala la pasta, cruda, è secca e dura; quando si scola, cotta, è morbida
Si mette duro e si toglie floscio.
‘I maccarüne jìnd’a cavedére= La pasta dentro la pentola.
Quando si cala la pasta, cruda, è secca e dura; quando si scola, cotta, è morbida
Si uniscono peli e peli, e in mezzo c’è la carne nuda.
I cegghje de l’ùcchje = Le ciglia degli occhi.
Bello da vedere, caro da comprare, riempilo di carne e lascialo stare.
L’anjìlle = L’anello
La “carne” ovviamente è il dito cui è destinato l’anello. Lascialo stare a lungo, tienilo caro.
Scende ridendo e sale piangendo.
‘U sìcchje ind’u pózze = Il secchio nel pozzo, quando scende è asciutto, ma quando risale gocciola e perciò viene paragonato a uno che piange.
In mezzo a due montagne passa un monaco cantando cantando
‘U pìppete (o più appropriatamente ‘u chjìreche, il chierico, visto che lo abbiamo classificato ‘monaco’) = Il peto, la scorreggia. Immaginate le natiche come due montagne…
Lecca, lecca, perché sempre dentro il buco glielo inserisce.
‘U füle = Il filo
Il sarto per inserire facilmente il filo nella cruna dell’ago, usa umidirlo con la saliva in punta di lingua. In questo modo i pelucchi del filo spezzato dalla spagnoletta si “incollano” e diventano più facilmente manovrabili nel centrare la cruna per l’infilatura
Abbucché 1 = Corrompere. Si usa preferibilmente nella locuzione tenì abbucchéte, come per dire far contento qlcn, riempirgli metaforicamente la bocca con regalie, in attesa di futuri favori.
In questi anni si è usato l’eufemismo “bustarella” o “tangente” distribuite generosamente solo con l’intento di ingraziarsi il destinatario per ottenere grossi appalti di opere pubbliche. Il malcostume è purtroppo diffuso tuttora a tutti i livelli della Pubblica Amministrazione, nonostante la crociata di “Mani Pulite”. È cronaca quotidiana dei notiziari televisivi.
Ma questo andazzo si verifica anche nella vita di tutti i giorni, e senza rischi di commettere reati.
Un esempio? Dare una bella mancia al cameriere di un locale di cui si è abituali clienti, in modo che ci possa riservare un buon tavolo e consigliarci un buon piatto.
Entrare nelle grazie di un commesso per evitare la fila e sbrigare più rapidamente un’operazione bancaria.
Abbucché 2 = “abboccare”, che significa come in italiano:
-prendere con la bocca, mordere l’esca
-cadere in inganno, cascarci, farsi fregare
-parlarsi, avere un colloquio, conferire, riunirsi.
Ringrazio il lettore Antonio Sorbo per il prezioso suggerimento fornitomi.
La traduzione letterale sarebbe “a buon conto”; in italiano si potrebbe usare la locuzione “ad ogni buon conto” o anche “morale della favola”, “alla fine”, “in fin dei conti”.
Il lodato vocabolario on line Sabatini-Coletti definisce come congiunzione testuale: “conferisce valore riassuntivo e conclusivo a una frase con sequenza di discorso rispetto a quanto detto in precedenza” Basta così, altrimenti questo mio lavoro rischia di diventare un trattato scientifico, cosa che assolutamente non è nelle mie intenzioni!!!!
Abbönecónde vù avì sèmpe raggiöne tó! = Alla fine vuoi sempre aver ragione tu!
Abbönecónde ‘stu capacchjöne uà fé cüme düce jìsse = Alla fine questo testone deve fare a modo suo (come dice lui)!
Abbönecónde, facjüme cüme e cazzöne, da turte a raggiöne = Morale della favola, pare che ora stiamo facendo come “cazzone”, il quale pur avendo torto marcio è riuscito ad aver ragione.
Esiste anche una forma molto più più antica, ormai del tutto desueta, che riporto in questo articolo solo per ricordarlo, cioè: abbönesüje o anche abbunesüje= ebbene sia (sia come tu mi dici, non mi va di replicare). Abbönesüje te vògghje avì crèdete = Alla fine voglio crederti (basta che finisca qui la disputa).
Chi rótte, chi sfascéte, chi arrepezzéte: abbönesüje nen ce stöve na cöse accüme i crestjéne = Chi rotto, chi sfasciato, chi rattoppato: insomma non c’era una sola cosa fatta per bene (come i “cristiani” nel senso di fatta a regola d’arte)
Abbjàrece v.i. = Avviarsi
Mettersi per via (da cui l’origine) iniziare un percorso stradale, o anche, figuratamente, un’azione, un lavoro.
Addjì ca v’abbjéte? = Dove siete diretti?
Talvolta questa domanda innocente, detta con sarcasmo, è tutta una critica sul modo di vestire, sulla inopportunità di eseguire un lavoro, sull’ineguatezza dei mezzi, ecc. delle persone prese di mira.
Per rincarare la dose si dice tuttora: addjì ca v’abbjéte senza ‘mbrèlle? = Dove volete arrivare (figuratamente) se non avete i mezzi?
Come per dire: ma che cosa volete concludere?
Ricordo che molti termini, quale strascico della lingua dei dominatori spagnoli, cambiano la “v” in “b” (varve, vrazze, àreve = barba, braccio, albero). In quella lingua hanno pressocché lo stesso suono.
Abbènge v.i. = dimostrarsi all’altezza, farcela.
Nen ce la fé abbènge = Non ce la fa a venirne fuori. Non riesce a sopportare.
Ritenevo che abbènge fosse la contrazione di “a vènge” (a vincere): non ce la fa a vincere, a sopportare, a completare un’azione con le sue forze, a uscire da una situazione difficile.
Invece ho scoperto casualmente che ci è pervenuto direttamente dal latino abvincere, riuscire a sbrigare un lavoro, farcela
Cϋme uà fé abbenge? = Come deve fare a cavarsela?
Mi ricordo di una memorabile gara tra il venditore di fichidindia e l’acquirente. Il primo li nettava velocemente col suo coltellino affilato, e il secondo li mangiava man mano che l’altro li apriva.
Insomma il tagliatore era più veloce, e il mangiatore, per quanto si sforzasse, non ce la faceva deglutire un frutto che un altro era già stato pulito.
‘Nce la faciöve abbènge oppure Nen l’abbengiöve = Non ce la faceva a soverchiare.