Cabbarè s.m. = Vassoio da cameriere.
Noi intendiamo la vaschetta di cartoncino per contenere i dolci di pasticceria.
Termine derivato dal francese Cabaret (pronuncia cabarè) proprio nel significato di vassoio, guantiera.
Noi intendiamo la vaschetta di cartoncino per contenere i dolci di pasticceria.
Termine derivato dal francese Cabaret (pronuncia cabarè) proprio nel significato di vassoio, guantiera.
Bummenére sm = Licantropo
L’etimologia di licantropo, come tutti i termini scientifici, deriva dal greco λυκάνθρωπος = lyco, lupo e antropos, uomo). Taluni si rifanno al latino lupus, lupo e maniarius, affetto da mania.
Nel corso dei secoli probabilmente lupus maniarius è diventato lu pumaniaru e poi lu pumanére, e da qui ‘u bumenére
Dai Manfredoniani ‘u bummenére era ritenuto una persona misteriosa e terrificante.
Erano due o forse tre gli uomini sospettati di esserle licantropi. La leggenda fiorita su queste persone è ricca di particolari:
Si diceva che ululassero di notte e rincorressero i malcapitati nottambuli per aggredirli!
Questi si salvavano dalla sua aggressione solo in due casi:
Nell’ipotesi 2. gli inseguiti avrebbero dovuto possedere anche una notevole dose di sangue freddo. Difatti durante la orsa per sfuggire all’inseguitore, dovevano estrarre il coltello dalla tasca, aprirlo, tracciare con la lama nel terreno un cerchio e due tagli intersecati al centro, piantarvi l’arma per terra e posizionarsi ritti all’interno del cerchio che sarebbe diventato una barriera invalicabile.
Troppe le operazioni richieste mentre incombeva l’inseguitore ululante alla calcagna, e coordinare i movimenti nella foga della corsa!
Insomma non c’era scampo: perciò… era meglio restare a casa per evitare brutti incontri!
Infine si dava per certo il fatto che costoro trasmettessero i loro “poteri” in punto di morte, toccando con la mano uno di quelli che si raccoglievano al suo capezzale per assisterlo (come nella leggenda di Dracula).
Secondo me i cosiddetti bummenére erano dei poveri malati che uscivano di notte a causa della loro spasmodica fame di aria, e che sicuramente non avevano la forza di rincorrere né di fare del male a nessuno.
Sono portato a credere che fossero semplicemente dei buontemponi che si burlavano i paesani.
L’amico Domenico Palmieri riferisce testualmente:
«Molti dei nostri arguti vecchi sostenevano che erano “femminari” incalliti che, per non farsi vedere o conoscere mentre andavano dalle loro “comari”, si inventavano questa “stranezza” e impedire agli insonni, di affacciarsi alle porte dopo una certa ora.»
Scientificamente in psichiatria si definisce la licantropia un delirio melanconico per cui l’ammalato si crede trasformato in lupo e ne imita l’ululato.
Esiste la locuzione Fé ‘u bummenére, col significato di agitarsi e di lamentarsi a lungo. Tossire spasmodicamente, Avere attacchi d’asma con reali difficoltà respiratorie.
Stanotte marìteme ho fatte ‘u bummenére = Questa notte mio marito non ha dormito lui, e non ha fatto dormire nemmeno me, a causa di suoi incessanti attacchi di tosse.
Si definiscono bummenére anche quelli che fanno vita da nottambuli.
Che jéte facènne! ‘Sti bummenére! = Ma cosa andate facendo? Questi incalliti nottambuli!
In Basilicata viene denominato lupòmene storpiatura del latino lupus e hominis? = lupo-uomo, o uomo-lupo.
Buàtte s.m. = Scatola.
Scatola di latta usata per conservare cibi.
Si tratta del termine francese boîte che si pronuncia allo stesso modo, ma è femminile in quella lingua (la boite, pronuncia: la buàtte). In napoletano si dice proprio ‘a buàtte.
In francese è usato per indicare anche scatole di legno o di cartone per riporre scarpe, camicie, cioccolatini, vino e per imballaggio in genere.
Durante il periodo dell’Esistenzialismo di Sartre e Camus, era chiamato boîte anche il locale dove si riunivano i giovani seguaci di questa corrente filosofica, di moda negli anni ’50.
Cazzemarre (o Marre) s.m. = Marro, cazzomarro, marretto
Non esiste un termine appropriato in italiano, e si ricorre a forme dialettali..
Il nostro marro usa esclusivamente le interiora di agnello o di capretto condite con aglio, prezzemolo, formaggio pecorino e pepe..
È della stessa natura del più diffuso (clicca→) turcenjille, ma di dimensioni ben più grandi e dalla forma grossa e allungata che ricorda un mostruoso fallo, da cui il nome cazzemarre, un po’ triviale ma che suscita sorrisini. Il nome deriva dal verbo “cazzare” usato nelle zone murgiane col significato di schiacciare. e dal latino “marra” che vuol dire mucchio. Si ricorre spesso alla forma breve: ‘ Màrre per evitare qualsiasi imbarazzo.
Il Cazzomarro è stato catalogato nei “prodotti agroalimentari tradizionali italiani tipici della Basilicata”(PAT), ma è diffuso anche in tutta la Puglia, nell’Alto Sannio, in Irpinia, in Abruzzo e nel Molise, regioni dedite prevalentemente all’agricoltura ed alla pastorizia, molto simili alle nostre in fatto di abitudini alimentari a causa della secolare transumanza.
Ovviamente nelle varie zone assume nomi differenti: marretto, abbuoto, torcinello, mazzette, treccetelle mugliatiello, cazzimarro, ecc.
Viene cotto generalmente al forno contornato dalle patate e/o lampascioni. Ottimo anche alla brace.
Un piatto simile è in uso in Sicilia col nome di “stigghiola” e in Grecia “kokoretsi” (κοκορέτσι) e similmente “kokores” (kokoreç) in Turchia [da Wikipedia].
I nostri pescatori chiamano cazzemarre – forse per la forma allungata – quel groviglio di alghe che, per effetto dello strascico, si ritrovano nelle reti.
Può essere che sia avvenuto il contrario, cioè dal nome dell’ammasso di erbe si è passati al nostro saporito Cazzemàrre.
Bruzzöne s.m. = Giaccone pesante e privo di qualsiasi ricercatezza.
In effetti si tratta di un giaccone, talvolta senza maniche, ricavato dal vello degli ovini cucito grossolanamente.
Usato dai pastori che menano al pascolo le loro greggi. Utilissimo a questa gente che doveva restare tutto il giorno al’aperto, sotto i rigori del freddo invernale.
Era confezionato con la pelle all’interno e la lana all’esterno.
Siccome i pastori nella Puglia piana, per l’antichissima consuetudine della transumanza – ossia lo svernamento delle pecore, condotte attraverso i tratturi, dalle zone montuose innevate al Tavoliere delle Puglie – erano abruzzesi, presumo che l’indumento fosse tipico di quella gente. Ecco perché si chiama bruzzöne, come per dire di foggia abruzzese.
Più tardi, e questo lo ricordo bene, è passato a designare qls indumento pesantissimo che tenesse caldo.
Te sì mìsse ‘nu sorte de bruzzöne! = Ti sei messo (addosso) cotal tabarro!
Brasciöle s.f. = Involtino
Il termine somiglia al sostantivo italiano ‘braciola’.
Nelle altre parti d’Italia se uno ordina al ristorante una braciola, si vede portare una fetta di carne di bue, di vitello o di maiale cotta sulla brace o alla griglia.
In Puglia ha un’altra connotazione. Si tratta di carne di vitello o di cavallo tagliata a fette, condita e arrotolata, e tenuta stretta con del filo bianco di cotone, oppure con alcuni stecchini.
L’interno è condito con aglio (o noce moscata grattugiata per quelli che hanno lo stomaco delicato), prezzemolo, uva passa, pinoli, pecorino grattugiato, prosciutto cotto, ecc… La fantasia non manca alle massaie pugliesi.
Dopo aver preparato le brasciöle le nostre massaie le cuociono al ragù per condire le orecchiette.
Nessuna si sognerebbe di farle ai ferri!
Brasciöle è anche un soprannome locale. Evidentemente il nomignolo è stato affibbiato a qualcuno che le vendeva o le gustava particolarmente.
Indumento “scandaloso” usato dalla ventenni sfacciate nell’immediato dopoguerra.
Era di cotone, ovviamente bianco, e, udite udite, sgambato, e con un merlettino rosso o giallino lungo il bordo inferiore.
Le ragazze fino ad allora avevano adoperato mutande lunghe fino al ginocchio, come i calzoncini dei calciatori: figuratevi cosa dicevano le loro mamme.
Fino agli anni ’50 le mutande da donna, erano confezionate in casa uguali ai box degli uomini, con tanto di gambetta, più o meno lunga a seconda della stagione.
Poi sono arrivate sulle bancarelle dei mercatini le prime mutande di cotone già confezionate, sgambate,con l’elastico largo in vita, chiamate slip.
Gli slip da uomo con l’apposita apertura, e quelli da donna intere, a triangolo, erano tutte in cotone filato bianco a coste.
Siccome fino ad allora le mutande si chiamavano tutte vréche = “braghe” (= Ciascuna delle gambe di pantaloni o mutande da uomo) qualcuno pensò che quelle femminili si dovessero chiamare vrachèsse = “braghesse”, (come dottorèsse).
Ovviamente il passo successivo venne da sé. Da vrachèsse a brachèsse e quindi brachèssüne per la loro dimensione ridotta rispetto a qelle maschili.
Notate l’influenza spagnola già evidenziata, tra la b e la v , come spiegato nella “Fonologia e ortografia”.
C’era una canzonaccia che circolava tra gli studenti dell’epoca, ora tutti attempati pensionati: cominciava come la famosa canzone napoletana ” ‘A cammesella” e poi naturalmente finiva con…e ljivete ‘u brachessüne!
Ora esiste una mutandina da donna, tipo file interdentale, chiamato perizoma.
Un amico veneziano ha sentenziato: “na olta par vedar el cul se spostaa le mudande, adesso par vedar le mudande se sposta el cul”. C’è bisogno della traduzione?
Boss s.m. = Dirigente, Manager, Capo squadra, Intestatario di Azienda, ecc.
Il termine inglese è giunto tale e quale qui da noi per merito degli emigrati in America. L’ho visto incluso addirittura nel vocabolario della lingua italiana come acquisito.
Per la sua brevità il sostantivo, volto soltanto al maschile, ‘u Boss, è accattivante, si ricorda facilmente, e dà un senso di familiarità e viene citato anche con una sottile ironia. Ecco giustificato il suo successo.
In ambiente domestico si intende indicare il Capo famiglia. In ambito lavorativo il Direttore della scuola, il Capo mastro, il Responsabile dell’Ufficio, il Direttore, ecc.
Un termine che ha diffusione anche nel linguaggio malavitoso. Il Boss è il Capo di associazioni mafiose. E questo boss non è detto in modo ironico ma in maniera maledettamente seria fin dai tempi di Al Capone.
Bommüne s.m. = Bambino
Va bene anche la grafia omofona Bommïne
Usata soltanto, per antonomasia, per indicare il Bambino Gesù nel presepio. San Gesèppe, la Madonne e ‘u Bommüne.
Una storpiatura linguistica come se si volesse rendere in dialetto una parola italiana. Difatti il bambino, inteso come neonato, è detto:
‘u/’a criatüre (m e f.) = la creature
‘u/’a uagnöne = il o la bambina
‘u peccenìnne = il piccolino
‘a peccenènne = la piccolina
Stanotte uà nàsce ‘u Bommüne = Siamo alla vigilia di Natale.
Mò àmma mètte ‘u Bommüne jìnd’u presèpje = Ora dobbiamo posare il Bambinello dentro il presepio.
Ho anche ho sentito il diminutivo ‘u Bammenjille = Il Bambinello. Chiaro il termine simil-italiano.
Un tenero ricordo della mia infanzia. Ho assistito alla Messa di Natale in Cattedrale. avevo otto anni, ossia nel 1948: a mezzanotte, quando è nato ‘u Bommïne, assieme ai canti e all’incenso, all’interno della Chiesa, con mia somma meraviglia, furono liberate dall’altare maggiore alcune colombe bianche, certamente in segno di “pax hominibus bonæ voluntatis“.
Esse volando passarono sulle nostre teste attraversarono tutta la navata e si andarono a posare sulla balconata dell’organo, al di sopra dell’ingresso principale.
Un’altra volta un bontempone, siccome la corrente elettrica era altalenante a causa del maltempo, disse durante la fase del buio:
Nen sapüme se stanotte se uà nasce mascule o fèmene…
Böje s.m. = Boia
Epiteto rivolto affettuosamente nel linguaggio familiare, ai bambini che fanno birbonate e marachelle.
Mado’, ccùme àgghja fé pe ’stu bböje? Ne la fenèsce méje… = Madonna, come (ho da) devo fare con questo boia? Non la finisce mai
Significato letterale = boia, carnefice, esecutore di condanne a morte.
Pensate che coraggio doveva avere costui: mettere il cappio intorno al collo del condannato, e azionare la botola o issarlo a braccia sulla forca, sospendolo finché non sopraggiungeva la morte. Oppure, nei tempi più antichi, calare manualmente la mannaia sul collo del malcapitato poggiata sul ceppo e troncarla di netto. Con la rivoluzione francese la ghigliottina gli ha risparmiato questa incombenza: ma era sempre il boia ad issare la lama e a farla calare.
Chissà se era retribuito bene!