Tag: Locuzione idiomatica

Vedìrece ‘a mòrte pe l’ùcchje

Vedìrece ‘a mòrte pe l’ùcchje loc.id. = Scampare

Traduzione letterale: Vedere la morte con gli occhi. Trovarsi faccia a faccia con la morte.

Se lo si racconta, vuol dire che si è sfuggiti a un grave pericolo.

Temere per la propria vita. correre un grave pericolo, uscire illeso, uscire indenne, salvarsi, sottrarsi, trovare scampo, cavarsela.

A mìzze a quedda fenetòrje de mónne me so’ vìste ‘a mòrte pe l’ùcchje = Allo scatenarsi delle intemperie ho temuto seriamente di cavarmela.

Significa anche essere impreparati ad affrontare eventi immani, essere deboli per un’impresa ardua, avere uno scoramento.

Quànne àgghje viste ca pàteme jöve svenüte me so’ vìste ‘a morte pe l’ùcchje = Quando ho visto che mio padre era svenuto, mi sono scoraggiato (non sapendo che cosa fare)

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Vedì l’àzze male tagghjéte

Situazione che si mette male, che sta prendendo una brutta piega, che si evolve verso il peggio.

Agghje vìsta l’azze male tagghjéte, e senza düce njinde me ne so’ turnéte ‘ndröte = Ho visto la situazione si stava ingarbugliando, e senza dir nulla me ne sono tornato indietro.

Sto indagando per capire esattamente che cosa è quest’accidente di “àzze”.

L’etimologia è presumibilmente azzarjatüre/azze, che deriva da azzarjétembré = temperare, operazione del fabbro per rifare a caldo il taglio dei picconi da tufo.

Difatti con un piccone mal temperato la fatica sarebbe stata doppia e perciò era consigliabile lasciar perdere.

I lettori sono invitati a darmi i loro suggerimenti.

Mi hanno fatto notare che in lingua italiana esiste il sostantivo “azza” (Dal fr. hache) col significato di: antica arma costituita da un lungo manico di legno e da una parte metallica a forma di accetta, con testa foggiata a martello.

Quindi mi sembra coerente l’interpretazione iniziale, come dire “avere le armi spuntate”, trovarsi in difficolta ad affrontare un problema arduo. Rendersi conto di non essere in condizioni di competere-

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Vamméne Zappunöte (La)

La vamméne Zappunöte loc.id. = La levatrice di Zapponeta

La locuzione descrive una donna che si dà delle arie eccessive. Ma chi crede di essere ‘a vamméne Zappunöte?

In un piccolo centro come Zapponeta potrebbe anche essere considerata una persona importante, insostituibile, ma che aveva poco da fare perché le nascite non erano molto numerose.

Ma nella nostra “grande” città costei è solo un numero che si confonde negli altri numeri.

Al maschile si diceva, con lo stesso significato spregiativo: ‘U Sìneche Zappunöte.= il Sindaco di Zapponeta, beninteso quando il centro era solo una piccolissima frazione di Manfredonia e certamente non aveva il Sindaco ma solo un Rappresentante in seno al Consiglio Comunale di Palazzo San Domenico.

Ora che Zapponeta è un Comune autonomo, certamente avrà il suo bravo Sindaco, legittimamente insediato. Perciò la locuzione ha perso il significato dispregiativo originale.

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Ùcchje da före

Ùcchje da före loc. id. = Crepi l’invidia.

È la traduzione più verosimile. Alla lettera significa (restate con gli) occhi fuori dalle orbite (per il rammarico di non poter avere altrettanto).

La locuzione ha valore anche di esclamazione.

‘A fìgghja möje jì bèlle e aggarbéte: ùcchje da före! = La mia figliola è bella di aspetto e garbata nei modi: crepi l’invidia!

Ùcchje da före descrive anche semplicemente l’espressione di chi è colto da sorpresa o da meraviglia.

Come dire: riempirsi gli occhi spalancati, o rimanere a bocca aperta.

Sò stéte a Parìgge: ucchje da före! = Sono stato a Parigi: sono rimasto estremamente colpito dal fascino e dalla bellezza di questa città, che merita pienamente il suo bel titolo di Ville Lumière.

Beh, non è proprio una traduzione letterale, ma sapete che il dialetto ha una estrema capacità di sintesi….

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Tutung e tetang

Tutung-e-tetang locuz.id.. = Bla bla

Chiacchierio insistente; discorso inutile e inconcludente e portato per le lunghe.

E parlöve, e parlöve, e tetùng e tetàng: nen la fenöve cchjó! = E parlava e parlava, e bla bla bla, non la finiva più!

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Tùtte l’àngele a chésa möje!

Tùtte l’àngele a chésa möje loc.id = Che sorpresa!

Alla lettera significa: (Che bello,)tutti gli angeli (si sono radunati) a casa mia!

Si tratta di un’espressione di meraviglia, di sorpresa, allorquando, rincasando, il padrone di casa si imbatte in graditi ospiti che si erano intrattenuti oltre il tempo prefissato proprio per salutarlo.

Ovviamente la locuzione è accompagnata da un vistoso sorriso e dall’invito a rimanere ancora,nonostante quelli mostrino di voler andare via.

L’espressione è bella e mi è sempre piaciuta e non manca occasione di sfoderarla con i miei (grazie a Dio) numerosi amici.

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Trué ‘a pèzze a chelöre

Trué ‘a pèzze a chelöre loc.id. = Giustificare

Alla lettera: reperire una toppa dello stesso colore dell’abito da riparare.

La locuzione pittoresca, basata sulla benemerita opera delle nostre nonne, è molto efficace per descrivere una particolare abilità di chi sa trovare sempre una scusa buona, una ottima giustificazione di qls azione disapprovata da altri.

Visto che trovare sempre la toppa del colore adatto allo strappo è un’azione che non è da tutti.

Le nostre nonne conservavano sempre nell’apposito sacchetto, un mucchio di ritagli di stoffa proprio per rattoppare pantaloni strappati o logorati per l’usura. Tra questi riuscivano, catalogandoli uno per uno, a reperire quello più adatto, per consistenza e per colore, lavorando d’ago, a riparare il guasto.

Ricordo benissimo fino agli anni ’50 ragazzini che giocavano per strada e adulti al lavoro (muratori, imbianchini, pescatori, campagnoli) con i pantaloni rattoppati al ginocchio o al culo. Per la verità la toppa non sempre era dello stesso colore, ma la necessità di salvare quello rotto faceva superare questa diversità cromatica.

Quindi, la “reperire una toppa del colore adatto” nel linguaggio figurato, è diventata una giustificazione, o meglio, la straordinaria capacità di scovare una valida scusante per qls errore.

Giuànne quanne jì ‘nu fàtte tröve sèmbe a pèzze a chelöre = Giovanni, quando accade qualcosa (di spiacevole), riesce sempre a giustificarsi.

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Truàrece ‘a züte

Truàrece ‘a züte loc. id. = fidarzarsi

Ovviamente züte significa fidanzato/fudanzata con voce di probabile origine spagnola.

Ahò, che aspjitte a tuàrete ‘a züte? Tutte quànde ce süme fedanzéte! = Ehi, che cosa aspetti a sceglierti la fidanzata? Tutti (noi del gruppo) ci siamo fidanzati, e tu no!

Era il primo passo per arrivare al fidanzamento ufficiale e poi al matrimonio, allorquando questa istituzione era una cosa seria.

I giovincelli fermavano le ragazze per strada, durante la passeggiata domenicale per il Corso, o anche durante le domestiche festicciole, nel corso di un ballo lento, e nell’arco della durata del disco, approcciandosi con una frase standard in italiano, appresa da quelli più “esperti”: “Buonasera signorina, da quando ti ho visto ho pensato sempre a te. Mi piacerebbe formare una famiglia e tu sei quella che mi piaci, perché bella e garbata…” ecc. ecc.

Qualche buontempone, vedendo la scena, diceva ad alta voce: Busciüje! = bugia, non credergli perché costui racconta fandonie!

Ovviamente anche la donzella rispondeva con una frase standard in italiano: “La risposta fra una settimana”.

Mi viene a mente il film della Wertmüller “I Basilischi”, con Stefano Satta-Flores, girato a Palazzo San Gervasio (PZ): “La rispòste, fra tre ggiòrne“.

La fanciulla nel frattempo aveva modo di informarsi sul ragazzo, sul suo mestiere, se era di buona famiglia, se era uno scapestrato, ecc.

Qualora, dopo i prescritti tempi di attesa, la risposta era positiva, il ragazzotto poteva dirlo con orgoglio ai suoi amici di comitiva: me sò truéte a züte, e che quindi aveva degli obblighi verso di lei.

Tutti avrebbero compreso che il “fortunato” doveva assentarsi dal gruppo e non avrebbe più partecipato ai loro abituali incontri.

Quando anche gli altri ce truàvene a züte, il gruppo si riformava, raddoppiato, e le ragazze familiarizzavano volentieri, come facevano tra di loro i cavalieri.

Al giorno d’oggi le cose sono molto diverse. Ci si prende e ci si lascia – anche dopo il matrimonio – con una facilità ributtante. Non so se questa evoluzione dei costumi sia un bene. Lo dico senza fare il bacchettone: l’amore ai miei tempi era schietto, desiderato, voluto e certamente più duraturo.
La züte möje = fidanzata e sposa, è ancora al mio fianco dal 1959: fate voi i calcoli! Sembriamo a volte Sandra e Raimondo, per delle cose futili, che si risolvono dopo un minuto. Vi assicuro che sulle cose importanti siamo molto uniti!
Scusate la parentesi personale.

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Tòrce l’ùcchje

Tòrce l’ùcchje loc.id. = Spaventarsi, terrorizzarsi.

Alla lettera significa: Torcere gli occhi, volgere lo sguardo in alto, come accade involontariamente a coloro che stanno per svenire.

Questa locuzione, se è riferita ad un atto fisico, descrive un segno di imminente svenimento; invece, più verosimilmente, in modo figurato definisce sgomento, sbigottimento, raccapriccio per un avvenimento inaudito, quasi da lasciare in deliquio.

Stanòtte ‘u tarramöte m’ho fatte tòrce l’ucchje = Questa notte il terremoto mi ha terrorizzato.

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Sté a pjitte de fatüje

Sté a pjitte de fatüje loc.id. = Essere indaffarati.

Quando qlcu è sommerso di lavoro, anche figuratamente, diceva a “pjitte de fatüje” = essere sommersi di lavoro fino al petto..

Tuttavia esisteva anche la forma diciamo a “sfottò”, ossia “sté a pìnghe de fatüje” = essere pieni di lavoro fino all’inguine!!! ?

Questa l’ho sentita dal barbiere:
Una mattina si affacciò alla bottega un tale e chiese:
”  Ce völe tjimbe?” = Ho da aspettare molto tempo prima che arrivi il mio turno?

Risposta immediata del barbiere: ”  Stéche a pìnghe de fatüje” = Sono molto indaffarato e non posso nemmeno prevedere il tempo necessario per terminare di servire i clienti presenti in bottega.

Mirabile potere di sintesi del nostro dialetto!

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