Tròzzele

Tròzzele s.f= Carrucola, sporcizia, battola

1) Tròzzele = Bozzello, carrucola usata per issare le vele o per sollevare pesi. Anticamente era di legno. Oggi si usano quelle metalliche a più ruote. Paranco.

2) Tròzzele = Sporcizia in genere, ma specificamente lo sterco degli ovini, a forma di olive nere, specie se le palline si attaccano alla lana delle povere pecore… Termine usato generalmente al plurale. La lène sté tutta chjöne di tròzzele: e völ’esse lavéte. = La lana è sozza, e dev’essere lavata)

Per la pulizia a fondo di qlcn o di qlcs si usa il verbo struzzelé = togliere le tròzzele, levare la sporcizia.

Per indicare una persona sporca si usa truzzelüse al maschile, e truzzelöse al femminile.
Ho letto da qualche parte che tròzzele deriva dal latino trochleam (carrucola). Presumo che la forma tondeggiante del bozzello immancabilmente appeso ad una cima fu associata come immagine alla “cacarozza” della pecora attaccata alla sua lana (puah).

3) Tròzzele = Bàttola o Bàtola (ovviamente deriva da battere). Tavoletta di legno con maniglie mobili in ferro che – agitata con rapida torsione del polso – produce un rumore particolare, usata in passato all’esterno della chiesa, durante le Processioni della Settimana Santa quando tacevano le campane.
Ho letto che le battole erano usate anche dai battitori durante le battute di caccia per stanare la selvaggina.
In altre parti della Puglia la batola è chiamata “troccola” sempre derivata dal latino trochleam.
Similmente, durante le funzioni all’interno della chiesa, bastava il  crepitacolo (da crepitare) detta crotalo (dal nome del serpente a sonagli) o anche anche raganella (dalla ranocchia gracidante) usata al posto del tintinnante campanello.

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Tróvele

Tróvele agg. = Torbido

Riferito a liquidi, definisce lo stato di non limpidezza causato da corpuscoli microscopici in esso contenuti.

U mére jògge jì tróvele = Il mare oggi ha le acque torbide.
Succede dopo una mareggiata, quando il moto ondoso smuove il fango dei fondali.

Riferito a persone, definisce l’aspetto caratteriale di nebuloso, chiuso, cupo, taciturno.

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Trjìmete

Trjìmete s.m. = Torpedine

Pesce cartilagineo appartenente alla fam. dei raidi e comprende numerose specie. (Torpedo torpedo, nobiliana, ocellata, ecc.)

Ha il corpo appiattito a disco, bocca ventrale. Vive nei fondali bassi. E’ un po’ simile alla Razza, ma è caratterizzata dalla presenza ai lati del corpo di un particolare organo elettrogeno in grado di produrre un campo elettrico la cui scarica  tramortisce le sue prede.

La scossa – almeno nelle specie che vivono nei nostri mari  – è a basso voltaggio, ed è avvertita dagli umani come un tremore (da cui il nome che significa tremito). Le specie oceaniche producono scosse fino a 220 V.

Ha carni molli e poco ricercate.
Invece sono apprezzate nella cucina manfredoniana.
Tipico è il piatto ‘i trjimete ammullechéte = le torpedini mollicate, preparati in teglia, con olio, aglio, pepe,  prezzemolo e ricoperte con mollica sbriciolata di pane raffermo.

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Trizzjé

Trizzjé v.t. = Succhiellare, scoprire le carte da gioco.

Corretta anche la pronuncia trezzjé.

Non so se in italiano esiste un verbo che corrisponda al nostro trizzjé. In Abruzzo dicono trizzicà, in Basilicata spizzicà in Campania dicono quasi come da noi: trizzià. Insomma il dialetto possiede un verbo transitivo che l’italiano forse non ha (o almeno è ignorato da me).

Il verbo riguarda il gioco delle carte.

Io provo a descrivere l’azione di trezzjé (o trizzjé) per i non avvezzi.

Si devono scoprire una per volta le carte ricevute, con lentezza e abilità, sperando di trovarvi quella favorevole al proprio gioco.

Ovviamente la prima carta è già visibile e nasconde le altre, che una alla volta verranno scoperte in un lento strip-tease mediante scorrimento della prima sulla seconda, e poi di questa sulla terza, ecc.

Perché si usa talvolta trizzjé le proprie carte? Forse per accrescere la tensione, per scoraggiare l’avversario, per stimolare l’adrenalina?

Mò m’a vògghje trezzjé ‘sta carte = Adesso mi voglio proprio gustare la scopertura di questa carta.

Nella tranquilla Canasta domestica ogni giocatore tiene in mano le carte ben scoperte verso di sé, e non ricorre a questo vezzo da incalliti professionisti.

Il dott. Matteo Rinaldi mi ha rivelato il corrispondente verbo italiano: “succhiellare”, e di questo lo ringrazio pubblicamente.
Tuttavia ritengo che il nostro trizzjé sia più accattivante, sintetico e musicale di quello corrispondente in lingua italiana.

Capita spesso!

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Trìspete

Trìspete s.m. = Trespolo, cavalletto.

Etimologicamente Trespolideriva dal tardo latino trespede(m), ossia con tre piedi, anche se il numero dei piedini d’appoggio non era vincolante.

Si tratta di un supporto di varia forma che poggia su tre o più piedi, usato come appoggio o come sostegno.

In dialetto era detto anche trispele o, con voce più antica, solo trìspe sia al singolare, sia al plurale.

Da noi con questo termine si indicavano (parlo al passato perché non esistono più per questa funzione), solo quei cavalletti di ferro usati per sostenere il letto. Dalla barra trasversale scendevano due gambi e ognuno di questi si biforcava. Sul pavimento quindi c’erano quattro piedini per ogni trespolo.

Ogni letto singolo aveva due trespoli, uno a chépe = a testa, e l’altro a pjite = a piedi. Sopra le due traverse superioni, ad almeno 40 cm dal pavimento, si ponevano dei tavolacci di legno destinati a sostenere ‘u saccöne = il pagliericcio, imbottito di foglie di mais, e infine il mataràzze = materasso, (forse) con la lana.

Ovviamente il letto matrimoniale aveva tutto a misura doppia: quattro trespoli, doppio di tavolacci, due pagliericci e due materassi.

Nelle case dei proletari a piano terra (la quasi totalità degli abitanti di Manfredonia), nello spazio tra i due trespoli si depositava la legna secca da ardere nel fucarüle = focolare.

Lascio immaginare a voi il ricettacolo che diventava il sotto letto: corteccia secca staccata dalla legna, polvere, scarafaggi…
Agli occhi di oggi ci sembra impossibile. Eppure le nostre nonne ci hanno vissuto in questa maniera.
Qualcuna, per igiene, allevava in casa una quaglia che faceva repulisti di insetti, ma in compenso lasciava immunerevoli cacche sparse su tutto il pavimento…..

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Trìppe

Trìppe s.f. = Busecca, trippa.

Stomaco (rumine, reticolo, omaso, abomaso) di bovini macellati che viene cucinato in vario modo.

Anche questo era considerato un piatto povero, ma ha sfamato a lungo i nostri genitori.

Ora è considerato un alimento grasso e volgare. Tuttavia una volta tanto vi consiglio di provarla per ricordare sapori antichi.

Provatela con il peperoncino alla maniera del morzeddu calabrese.

È sinonimo di epa, pancia, ventre prominente riferito a persone obese.

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Trìc-trac

Trìc-trac s.m. = Tric-trac, Petardo

Il sostantivo tric-trac, dal suono onomatopeico, è accettato anche nel vocabolario italiano quale regionalismo.
Secondo me va bene anche scritto con grafia diversa, trick-track, o tricche-tracche.

È un pericoloso gioco pirotecnico che scoppiando produce botti ripetuti.   Si reggeva l’ordigno con una mano e con l’altra si accendeva una corta miccia prima di lanciarlo per strada.  Se si indugiava nel lancio si rischiava l’amputazione di qualche dito….

Usato diffusamente nel mese di dicembre e fino a Capodanno per “festeggiare” rumorosamente l’Avvento e l’entrata dell’anno nuovo.

C’era quello modesto, quattro o cinque scoppi ravvicinati seguiti dal botto finale: tà-ta-tà-ta-bùm.

Poi c’era il tric-trac a dieci colpi, nove piccoli e sempre col finale più sonoro.

Prima dell’avvento sul mercato dei “fuochi” cinesi, fatti di luce e di fragore, quasi professionali, quelli usati da noi erano di fattura artigianale, simili a quello raffigurato nella foto in alto.

Questa foto qui a lato mostra un tric-trac cinese da 50 colpi (senza botto finale) detto “gazza cantante”, di libera vendita a meno di due euro,  ma sempre pericoloso per la sua miccia corta a combustione rapida.

A mio parere bisogna comunque proibirli, o quanto meno consentirne l’uso solo ai professionisti dei fuochi pirotecnici.

Un modo simpatico di descrivere un soggetto frettoloso era racchiuso nella locuzione: assemègghje ca töne sèmpe ‘u tric-trac appezzechéte ‘ngüle!| = sembra che abbia sempre un petardo attaccato al culo!

Insomma il tizio sbrigativo sarebbe “costretto” ad agire in fretta perché altrimenti la corta miccia dell’ immaginario petardo appiccicato ai suoi pantaloni non gli darebbe tempo di mettersi in salvo e di conseguenza potrebbe riportare un danno irreparabile al suo culo. 😀

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Tréve lùnghe (‘u)

U tréve lùnghe s.m. = La trave lunga

Alcuni dicono U’ tröne lunghe= il treno lungo. Gioco fanciullesco.

“Era il salto della cavallina ma fatto da un nutrito gruppo di amici: il primo si piegava a novanta gradi, con le mani poco sopra le ginocchia, ed il secondo lo saltava ma, distaccatosi di alcuni passi, si piegava a sua volta; Il terzo saltava i due che restavano chinati e, anche lui si distanziava e si piegava, e cosi via, finché il primo che si era piegato restava l’ultimo e allora saltava tutti quelli che lo avevano saltato prima.

Il percorso si definiva prima di iniziare. Noi andavamo, per corso Roma, dal campo sportivo a ‘U Larje ‘a Chjisa Granne = il largo della Chiesa grande, ossia Piazza Duomo, laddove, grazie al largo spazio, si giocava diversamente”. (Lino Brunetti)

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Trepjite

Trepjite s.m. = Treppiedi

Era un arnese usato dalle massaie che –  quando non c’era il gas e si cucinava a legna o a carbone –  si poneva sul fuoco del braciere, infisso nella carbonella, a sostegno della “tièlle” = tegame di terracotta nella quale si cuocevano i legumi, il ragù con i turcenjille, la ciambotte, ecc.
Consisteva in un anello fatto con vergella di ferro battuto (cioè a sezione piatta) dal quale partivano tre piedini terminanti a “L”.

I treppiedi avevano varie dimensioni, adatte al diametro delle pentole che dovevano reggere.

Si annerivano con il fuoco, e si riponevano, dal più piccolo al più grande, appesi “ind’u fucarile” = dentro il vano del focolaio, insieme alla rarìchele = graticola per gli sparroni e alla fresöle = padella

Esistevano quelli di forma triangolare con piedini più corti, da usare nel camino.

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Trengéte

Trengéte s.m. = Trinciato

In italiano la voce verbale ‘trinciato’ significa: tagliato, tagliuzzato, sminuzzato.

In dialetto designava un prodotto semilavorato costituito da foglie di tabacco ridotte in striscioline corte e sottili. Era di infima qualità, puzzolente, quasi come quello contenute nelle sigarette “Gauloises” francesi, autentici ‘candelotti di dinamite’.

Esistevano tre versioni: ‘u trengéte fòrte = il trinciato forte, ‘u trengéte Nazziunéle = il trinciato Nazionale, e ‘u trengéte dòlce = il trinciato dolce, una più schifosa dell’altra.

Il ‘trinciato’ veniva posto in vendita in pacchettini (credo da 20 grammi) di carta grossa color beige, con tanto di sigillo ‘Monopoli di Stato’.

Di solito i fumatori per non sgualcire il pacchetto nella tasca, trasferivano in un astuccio metallico tutto il suo contenuto. L’interno del coperchio era dotato di una linguetta per serrare il ‘libretto’ delle 10 cartine col lembo gommato, necessarie per confezionare a mano gli spinelli.

Quando il fumatore voleva fumare, compiva un autentico rito woodoo: apriva l’astuccio, staccava una cartina e la piegava a canaletta con una mano; con l’altra prendeva un pizzico di trinciato e lo posava sulla cartina; chiudeva l’astuccio e lo infilava in tasca; con le due mani arrotolava lo spinello, lo umettava con la saliva in modo che il lembo gommato si incollasse all’altro lembo; si poneva la ‘sigaretta’ tra le labbra; accendeva un fiammifero da cucina – i famigerati puzzolenti zolfanelli – e le dava fuoco, sprigionando una puzza acre e insopportabile, una miasma che dava di zolfo e fuliggine riarsa. Puah!

Forse avete capito che non sopporto il fumo del tabacco….

Quando nelle tasche di questi fumatori girava qualche lira in più si concedevano le sigarette: ovviamente compravano le ‘Alfa’, che costavano 6 lire l’una (mentre quelle pregiate, ad es. le ‘Edelweiss’ o le ‘Macedonia Oro’ costavano 14 lire ciascuna).

Presumo che non si usino più né il trinciato, né le cartine, né gli zolfanelli.

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