Trune

Trùne s.m. = Tuono

1) Trùne, s.m. – Rumore che, durante i temporali, fa seguito a una scarica elettrica atmosferica a causa della rapida espansione dell’aria da essa riscaldata.

Una domanda burlesca veniva rivolta ai bambinelli ingenui:
– “Döpe ‘u lambe che vöne?” = Dopo il lampo che viene? La risposta era logica:
– “U trùne!” = il tuono! Allora l’ “esperto” lo rimbeccava, addirittura con la rima:
– “Sì fèsse e nen te n’addùne!” = Sei sciocco, fessacchiotto e non te ne accorgi.

2) Trùne, agg. – Per i ragazzini che giocavano con le trottole di legno, trùne era un aggettivo che definiva la cattiva qualità del giocattolo, nel senso che esso non prillava benissimo sul suo asse, perché la punta metallica non era stata conficcata con l’estrema precisione voluta. Preso preso sul palmo della mano durante la sua veloce rotazione, dava un senso di tremore. Se non aveva oscillazione la trottola era definita ‘na pennozze, una pennuzza, una piuma! Se la qualità era pessima la trottolina era classificata come zarabbabbà, forse con una riminiscenza di lingua araba.

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Trué ‘a pèzze a chelöre

Trué ‘a pèzze a chelöre loc.id. = Giustificare

Alla lettera: reperire una toppa dello stesso colore dell’abito da riparare.

La locuzione pittoresca, basata sulla benemerita opera delle nostre nonne, è molto efficace per descrivere una particolare abilità di chi sa trovare sempre una scusa buona, una ottima giustificazione di qls azione disapprovata da altri.

Visto che trovare sempre la toppa del colore adatto allo strappo è un’azione che non è da tutti.

Le nostre nonne conservavano sempre nell’apposito sacchetto, un mucchio di ritagli di stoffa proprio per rattoppare pantaloni strappati o logorati per l’usura. Tra questi riuscivano, catalogandoli uno per uno, a reperire quello più adatto, per consistenza e per colore, lavorando d’ago, a riparare il guasto.

Ricordo benissimo fino agli anni ’50 ragazzini che giocavano per strada e adulti al lavoro (muratori, imbianchini, pescatori, campagnoli) con i pantaloni rattoppati al ginocchio o al culo. Per la verità la toppa non sempre era dello stesso colore, ma la necessità di salvare quello rotto faceva superare questa diversità cromatica.

Quindi, la “reperire una toppa del colore adatto” nel linguaggio figurato, è diventata una giustificazione, o meglio, la straordinaria capacità di scovare una valida scusante per qls errore.

Giuànne quanne jì ‘nu fàtte tröve sèmbe a pèzze a chelöre = Giovanni, quando accade qualcosa (di spiacevole), riesce sempre a giustificarsi.

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Truàrece ‘a züte

Truàrece ‘a züte loc. id. = fidarzarsi

Ovviamente züte significa fidanzato/fudanzata con voce di probabile origine spagnola.

Ahò, che aspjitte a tuàrete ‘a züte? Tutte quànde ce süme fedanzéte! = Ehi, che cosa aspetti a sceglierti la fidanzata? Tutti (noi del gruppo) ci siamo fidanzati, e tu no!

Era il primo passo per arrivare al fidanzamento ufficiale e poi al matrimonio, allorquando questa istituzione era una cosa seria.

I giovincelli fermavano le ragazze per strada, durante la passeggiata domenicale per il Corso, o anche durante le domestiche festicciole, nel corso di un ballo lento, e nell’arco della durata del disco, approcciandosi con una frase standard in italiano, appresa da quelli più “esperti”: “Buonasera signorina, da quando ti ho visto ho pensato sempre a te. Mi piacerebbe formare una famiglia e tu sei quella che mi piaci, perché bella e garbata…” ecc. ecc.

Qualche buontempone, vedendo la scena, diceva ad alta voce: Busciüje! = bugia, non credergli perché costui racconta fandonie!

Ovviamente anche la donzella rispondeva con una frase standard in italiano: “La risposta fra una settimana”.

Mi viene a mente il film della Wertmüller “I Basilischi”, con Stefano Satta-Flores, girato a Palazzo San Gervasio (PZ): “La rispòste, fra tre ggiòrne“.

La fanciulla nel frattempo aveva modo di informarsi sul ragazzo, sul suo mestiere, se era di buona famiglia, se era uno scapestrato, ecc.

Qualora, dopo i prescritti tempi di attesa, la risposta era positiva, il ragazzotto poteva dirlo con orgoglio ai suoi amici di comitiva: me sò truéte a züte, e che quindi aveva degli obblighi verso di lei.

Tutti avrebbero compreso che il “fortunato” doveva assentarsi dal gruppo e non avrebbe più partecipato ai loro abituali incontri.

Quando anche gli altri ce truàvene a züte, il gruppo si riformava, raddoppiato, e le ragazze familiarizzavano volentieri, come facevano tra di loro i cavalieri.

Al giorno d’oggi le cose sono molto diverse. Ci si prende e ci si lascia – anche dopo il matrimonio – con una facilità ributtante. Non so se questa evoluzione dei costumi sia un bene. Lo dico senza fare il bacchettone: l’amore ai miei tempi era schietto, desiderato, voluto e certamente più duraturo.
La züte möje = fidanzata e sposa, è ancora al mio fianco dal 1959: fate voi i calcoli! Sembriamo a volte Sandra e Raimondo, per delle cose futili, che si risolvono dopo un minuto. Vi assicuro che sulle cose importanti siamo molto uniti!
Scusate la parentesi personale.

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Tròzzele

Tròzzele s.f= Carrucola, sporcizia, battola

1) Tròzzele = Bozzello, carrucola usata per issare le vele o per sollevare pesi. Anticamente era di legno. Oggi si usano quelle metalliche a più ruote. Paranco.

2) Tròzzele = Sporcizia in genere, ma specificamente lo sterco degli ovini, a forma di olive nere, specie se le palline si attaccano alla lana delle povere pecore… Termine usato generalmente al plurale. La lène sté tutta chjöne di tròzzele: e völ’esse lavéte. = La lana è sozza, e dev’essere lavata)

Per la pulizia a fondo di qlcn o di qlcs si usa il verbo struzzelé = togliere le tròzzele, levare la sporcizia.

Per indicare una persona sporca si usa truzzelüse al maschile, e truzzelöse al femminile.
Ho letto da qualche parte che tròzzele deriva dal latino trochleam (carrucola). Presumo che la forma tondeggiante del bozzello immancabilmente appeso ad una cima fu associata come immagine alla “cacarozza” della pecora attaccata alla sua lana (puah).

3) Tròzzele = Bàttola o Bàtola (ovviamente deriva da battere). Tavoletta di legno con maniglie mobili in ferro che – agitata con rapida torsione del polso – produce un rumore particolare, usata in passato all’esterno della chiesa, durante le Processioni della Settimana Santa quando tacevano le campane.
Ho letto che le battole erano usate anche dai battitori durante le battute di caccia per stanare la selvaggina.
In altre parti della Puglia la batola è chiamata “troccola” sempre derivata dal latino trochleam.
Similmente, durante le funzioni all’interno della chiesa, bastava il  crepitacolo (da crepitare) detta crotalo (dal nome del serpente a sonagli) o anche anche raganella (dalla ranocchia gracidante) usata al posto del tintinnante campanello.

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Tróvele

Tróvele agg. = Torbido

Riferito a liquidi, definisce lo stato di non limpidezza causato da corpuscoli microscopici in esso contenuti.

U mére jògge jì tróvele = Il mare oggi ha le acque torbide.
Succede dopo una mareggiata, quando il moto ondoso smuove il fango dei fondali.

Riferito a persone, definisce l’aspetto caratteriale di nebuloso, chiuso, cupo, taciturno.

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Trjìmete

Trjìmete s.m. = Torpedine

Pesce cartilagineo appartenente alla fam. dei raidi e comprende numerose specie. (Torpedo torpedo, nobiliana, ocellata, ecc.)

Ha il corpo appiattito a disco, bocca ventrale. Vive nei fondali bassi. E’ un po’ simile alla Razza, ma è caratterizzata dalla presenza ai lati del corpo di un particolare organo elettrogeno in grado di produrre un campo elettrico la cui scarica  tramortisce le sue prede.

La scossa – almeno nelle specie che vivono nei nostri mari  – è a basso voltaggio, ed è avvertita dagli umani come un tremore (da cui il nome che significa tremito). Le specie oceaniche producono scosse fino a 220 V.

Ha carni molli e poco ricercate.
Invece sono apprezzate nella cucina manfredoniana.
Tipico è il piatto ‘i trjimete ammullechéte = le torpedini mollicate, preparati in teglia, con olio, aglio, pepe,  prezzemolo e ricoperte con mollica sbriciolata di pane raffermo.

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Trizzjé

Trizzjé v.t. = Succhiellare, scoprire le carte da gioco.

Corretta anche la pronuncia trezzjé.

Non so se in italiano esiste un verbo che corrisponda al nostro trizzjé. In Abruzzo dicono trizzicà, in Basilicata spizzicà in Campania dicono quasi come da noi: trizzià. Insomma il dialetto possiede un verbo transitivo che l’italiano forse non ha (o almeno è ignorato da me).

Il verbo riguarda il gioco delle carte.

Io provo a descrivere l’azione di trezzjé (o trizzjé) per i non avvezzi.

Si devono scoprire una per volta le carte ricevute, con lentezza e abilità, sperando di trovarvi quella favorevole al proprio gioco.

Ovviamente la prima carta è già visibile e nasconde le altre, che una alla volta verranno scoperte in un lento strip-tease mediante scorrimento della prima sulla seconda, e poi di questa sulla terza, ecc.

Perché si usa talvolta trizzjé le proprie carte? Forse per accrescere la tensione, per scoraggiare l’avversario, per stimolare l’adrenalina?

Mò m’a vògghje trezzjé ‘sta carte = Adesso mi voglio proprio gustare la scopertura di questa carta.

Nella tranquilla Canasta domestica ogni giocatore tiene in mano le carte ben scoperte verso di sé, e non ricorre a questo vezzo da incalliti professionisti.

Il dott. Matteo Rinaldi mi ha rivelato il corrispondente verbo italiano: “succhiellare”, e di questo lo ringrazio pubblicamente.
Tuttavia ritengo che il nostro trizzjé sia più accattivante, sintetico e musicale di quello corrispondente in lingua italiana.

Capita spesso!

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Trìspete

Trìspete s.m. = Trespolo, cavalletto.

Etimologicamente Trespolideriva dal tardo latino trespede(m), ossia con tre piedi, anche se il numero dei piedini d’appoggio non era vincolante.

Si tratta di un supporto di varia forma che poggia su tre o più piedi, usato come appoggio o come sostegno.

In dialetto era detto anche trispele o, con voce più antica, solo trìspe sia al singolare, sia al plurale.

Da noi con questo termine si indicavano (parlo al passato perché non esistono più per questa funzione), solo quei cavalletti di ferro usati per sostenere il letto. Dalla barra trasversale scendevano due gambi e ognuno di questi si biforcava. Sul pavimento quindi c’erano quattro piedini per ogni trespolo.

Ogni letto singolo aveva due trespoli, uno a chépe = a testa, e l’altro a pjite = a piedi. Sopra le due traverse superioni, ad almeno 40 cm dal pavimento, si ponevano dei tavolacci di legno destinati a sostenere ‘u saccöne = il pagliericcio, imbottito di foglie di mais, e infine il mataràzze = materasso, (forse) con la lana.

Ovviamente il letto matrimoniale aveva tutto a misura doppia: quattro trespoli, doppio di tavolacci, due pagliericci e due materassi.

Nelle case dei proletari a piano terra (la quasi totalità degli abitanti di Manfredonia), nello spazio tra i due trespoli si depositava la legna secca da ardere nel fucarüle = focolare.

Lascio immaginare a voi il ricettacolo che diventava il sotto letto: corteccia secca staccata dalla legna, polvere, scarafaggi…
Agli occhi di oggi ci sembra impossibile. Eppure le nostre nonne ci hanno vissuto in questa maniera.
Qualcuna, per igiene, allevava in casa una quaglia che faceva repulisti di insetti, ma in compenso lasciava immunerevoli cacche sparse su tutto il pavimento…..

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Trìppe

Trìppe s.f. = Busecca, trippa.

Stomaco (rumine, reticolo, omaso, abomaso) di bovini macellati che viene cucinato in vario modo.

Anche questo era considerato un piatto povero, ma ha sfamato a lungo i nostri genitori.

Ora è considerato un alimento grasso e volgare. Tuttavia una volta tanto vi consiglio di provarla per ricordare sapori antichi.

Provatela con il peperoncino alla maniera del morzeddu calabrese.

È sinonimo di epa, pancia, ventre prominente riferito a persone obese.

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Trìc-trac

Trìc-trac s.m. = Tric-trac, Petardo

Il sostantivo tric-trac, dal suono onomatopeico, è accettato anche nel vocabolario italiano quale regionalismo.
Secondo me va bene anche scritto con grafia diversa, trick-track, o tricche-tracche.

È un pericoloso gioco pirotecnico che scoppiando produce botti ripetuti.   Si reggeva l’ordigno con una mano e con l’altra si accendeva una corta miccia prima di lanciarlo per strada.  Se si indugiava nel lancio si rischiava l’amputazione di qualche dito….

Usato diffusamente nel mese di dicembre e fino a Capodanno per “festeggiare” rumorosamente l’Avvento e l’entrata dell’anno nuovo.

C’era quello modesto, quattro o cinque scoppi ravvicinati seguiti dal botto finale: tà-ta-tà-ta-bùm.

Poi c’era il tric-trac a dieci colpi, nove piccoli e sempre col finale più sonoro.

Prima dell’avvento sul mercato dei “fuochi” cinesi, fatti di luce e di fragore, quasi professionali, quelli usati da noi erano di fattura artigianale, simili a quello raffigurato nella foto in alto.

Questa foto qui a lato mostra un tric-trac cinese da 50 colpi (senza botto finale) detto “gazza cantante”, di libera vendita a meno di due euro,  ma sempre pericoloso per la sua miccia corta a combustione rapida.

A mio parere bisogna comunque proibirli, o quanto meno consentirne l’uso solo ai professionisti dei fuochi pirotecnici.

Un modo simpatico di descrivere un soggetto frettoloso era racchiuso nella locuzione: assemègghje ca töne sèmpe ‘u tric-trac appezzechéte ‘ngüle!| = sembra che abbia sempre un petardo attaccato al culo!

Insomma il tizio sbrigativo sarebbe “costretto” ad agire in fretta perché altrimenti la corta miccia dell’ immaginario petardo appiccicato ai suoi pantaloni non gli darebbe tempo di mettersi in salvo e di conseguenza potrebbe riportare un danno irreparabile al suo culo. 😀

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