Verdèsche

Verdèsche s.f. = Ghiozzo testagialla

Si tratta di un pesce di mare dalle dimensioni fino ad un max di 12 cm, della categoria pìsce de prote = pesci di “pietra” (di scoglio), della stessa famiglia dei “Gobiidei”, ossia dei “cuggioni”e dei “maccaroni“.
Questi pesci vivovno su fondali fino a 15 m. o fra le praterie della Posidonia oceanica.

Il nome dialettale si riferisce al loro colore vivace, giallastro tendente al verde.
Linneo, il grande botanico naturalista, gli attribuì il nome scientifico Gobius xanthocephalus che significa proprio “ghiozzo dalla gialla testa”.

Fra i pesci “di pietra” – ossia di scoglio – va annoverata anche la “landrosa” e la vavosa o bavosa.

Viene catturata con la lenza dai pescatori dilettanti. Difficile trovarla sulle bancarelle dei mercati. Carni squisite in umido.

Per curiosità in lingua italiana per verdesca si intende uno squaletto venduto a tranci e spacciato per pesce-spada, di cui è meno pregiato.

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Veramènde

Veramènde avv. Davvero.

Veramènde, o alla bórje? = Davvero o per burla?

Domanda rivolta a qlcn per accertarsi se dice o agisce sul serio o per scherzo, per burla.

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Venì ‘a bòtte (fàrece venì la)

Venì ‘a bòtte loc.id. = Spazientirsi. Perdere le staffe.

Impulso irrazionale e aggressivo di reagire a qlc provocazione. Equivale a salire il sangue alla testa.

M’jì venute la botte e l’agghje menéte ‘nu recchjéle = Ho perso le staffe e gli ho assestato uno ceffone.

Equivalente anche la locuzione Fàrece venì ‘u quarte = reagire d’impulso, perdere il controllo, non mantenere la padronanza di sé, il dominio dei propri sentimenti.

Abbéde a te, ca se me vöne ‘u quarte nen sacce manghe jü add’jì ca jéme a fenèsce = Attento, ché se mi spazientisco non so come finirà la faccenda (alla lettera: Bada a te, perché se mi sale il sangue alla testa non so nemmeno io dov’è che andiamo a finire).

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Vènghe

Vènghe s.f. = Campana

Questa campana non è quella che suona per invitare i fedeli alla Funzione religiosa…

È il gioco infantile che consiste nell’avanzare, saltellando su un piede solo uno schema disegnato per terra.

Nelle altre parti d’Italia è una specie di scacchiera. Quella giocata a Manfredonia era formata da cinque linee rette parallele, e da una linea ad arco tracciata come una lunetta. Negli spazi fra le due linee si scrivevano le cifre da 1 a 5, e nel semicerchio terminale il numero 6.

Per tracciare la vènghe sul marciapiede si usava un pezzetto di carbone della fornacella di mamma, ma andava bene anche un mozzicone di gessetto sottratto alla scuola.

Si lanciava un tacco di gomma – detto ‘u salva-tàcche o ‘u söpa-tacche – staccato da qualche vecchia scarpa destinata alla spazzatura, ma sarebbe andato bene anche un sasso piatto, nella “casa”, cominciando dalla casella più vicina al lanciatore (prima la n.1 poi la 2 la 3 ecc.).

Dopo aver raggiunto la meta n. 6, si faceva il percorso a ritroso (5, 4, 3, ecc.). Se l’oggetto lanciato si arrestava sulla linea divisoria, il gioco passava di mano all’altro contendente.

Chi percorreva tutto il tragitto senza commettere errori aveva diritto a “comprare la casa”, scegliendo la casella con il lancio del salva-tacco dietro le sue spalle.

La casa acquistata non poteva essere più toccata dall’antagonista, costretto letteralmente a scavalcarla , ma solo dal proprietario. Il problema sorgeva quando le case acquistate erano contigue.

Si giocava promiscuamente, maschietti e femminucce perché era un gioco tranquillo, durevole ed avvincente.

Juché alla vènghe = Giocare alla campana

Il gioco della campana è documentato fin dai tempi dell’antica Roma allorché era chiamato gioco del “claudus”, cioè dello zoppo. Uno schema di campana è tuttora presente sul lastricato del foro romano a Roma.

La vènghe indicava anche il tracciato circolare che delimitava l’area di gioco della trottola di legno, detta (clicca→) ‘u córle.

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Vendàglje

Vendàglje s.m. = Ventaglio

Oggetto usato per farsi aria, costituito da una serie di sottili stecche di materiale vario che, imperniate nella parte inferiore, possono aprirsi e chiudersi a raggiera e da una membrana di carta, seta o altro ad esse applicata.

Quello fisso per ravvivare il fuoco è chiamato vendagghje

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Vendàgghje

Vendàgghje s.m. = Ventaglio

Occorre fare una distinzione: Il termine, leggiadro, vendaglje indica quello pieghevole, da borsetta, usato dalle signore per farsi aria durante la stagione calda.

Invece vendàgghje, nome rustico, era quello che serviva per ravvivare il fuoco di carbonella. Non si usa più. Per i rari barbecue domestici qualcuno adopera l’asciugacapelli!

Il nostro vendàgghje consisteva in un telaietto di legno, fornito di manico, sul quale erano infisse le piume nere e lunghe della coda del tacchino.

L’arnese, leggero ed efficace, fu sostituito da un ventaglio triangolare, di legno compensato o di latta, incastrato in un manico: forse durava di più, ma non era la stessa cosa!

Sia l’oggetto, sia il termine sono ormai in disuso nelle nostre case.

Anticamente era chiamato sciusciatüre, dal verbo sciuscé = soffiare
(foto attinta dal web)

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Velózze

Velózze s.f. = Asfodelo

Pianta selvatica (Asphodelus aestivus o microcarpus) dalle foglie lunghe, fiori rosati a grappoli, e fusto alto circa 50 cm., glabro, sottile quanto un grissino, del quale ha la consistenza quando è secco.

Le radici a tubero una volta venivano raccolte per uso alimentare, e bollite come le patate, ma se ne sconsiglia l’uso perché contengono un alcaloide.    Sono molto forti,  resistono alle intemperie più severe e addirittura sopravvivono agli incendi, rifiorendo puntualmente ad ogni primavera…

Nella Puglia piana si raccoglieva il fusto ancora tenero per farne minestre. La rosetta basale in primavera era usata dai casari andriesi per avvolgere le mozzarelle fresche, come un cestello, alle quali conferiva un particolare aroma.

Viene usato solo quale esca per accendere il fuoco.

È preso quale termine di paragone quando si cita qualcuno dalle gambe molto sottili.

Tone i jàmme accüme e döje velózze = Ha le gambe sottili come due asfodeli.

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Velöne

Velöne s.m. = Dispiacere, stizza.

Da non confondere con il veleno, che da noi si chiama ‘u tùsche= succo tossico.

Si intende velöne anche nel senso di irritazione, fastidio, disappunto, contrarietà, ecc.

Vüte quànda velöne ca sté dànne a màmete? = Vedi quanti dispiaceri che sta arrecando a tua madre?

Nen facènne pegghjé velöne a màmete! = Non far prendere collera a tua madre, non darle dispiaceri, comportati bene.

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Velardüne

Velardüne n.p. = Bernardo, Bernardino o Berardino

Diminutivo di Bernardo, nome che dal germanico berno, “orso” e hardhu, “duro, valoroso” e significa quindi “forte come un orso” .

L’onomastico si festeggia il 20 agosto in onore di san Bernardo abate, fondatore della abbazia di Clairvaux, morto nel 1153.

San Berardino da Siena è il Santo Patrono di Bernalda (MT) e de L’Aquila.

Notate la ‘b’ diventata ‘v’ per la influenza dello spagnolo nei dialetti del sud Italia.

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Vedìrece ‘a mòrte pe l’ùcchje

Vedìrece ‘a mòrte pe l’ùcchje loc.id. = Scampare

Traduzione letterale: Vedere la morte con gli occhi. Trovarsi faccia a faccia con la morte.

Se lo si racconta, vuol dire che si è sfuggiti a un grave pericolo.

Temere per la propria vita. correre un grave pericolo, uscire illeso, uscire indenne, salvarsi, sottrarsi, trovare scampo, cavarsela.

A mìzze a quedda fenetòrje de mónne me so’ vìste ‘a mòrte pe l’ùcchje = Allo scatenarsi delle intemperie ho temuto seriamente di cavarmela.

Significa anche essere impreparati ad affrontare eventi immani, essere deboli per un’impresa ardua, avere uno scoramento.

Quànne àgghje viste ca pàteme jöve svenüte me so’ vìste ‘a morte pe l’ùcchje = Quando ho visto che mio padre era svenuto, mi sono scoraggiato (non sapendo che cosa fare)

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