Questa campana non è quella che suona per invitare i fedeli alla Funzione religiosa…
È il gioco infantile che consiste nell’avanzare, saltellando su un piede solo uno schema disegnato per terra.
Nelle altre parti d’Italia è una specie di scacchiera. Quella giocata a Manfredonia era formata da cinque linee rette parallele, e da una linea ad arco tracciata come una lunetta. Negli spazi fra le due linee si scrivevano le cifre da 1 a 5, e nel semicerchio terminale il numero 6.
Per tracciare la vènghe sul marciapiede si usava un pezzetto di carbone della fornacella di mamma, ma andava bene anche un mozzicone di gessetto sottratto alla scuola.
Si lanciava un tacco di gomma – detto ‘u salva-tàcche o ‘u söpa-tacche – staccato da qualche vecchia scarpa destinata alla spazzatura, ma sarebbe andato bene anche un sasso piatto, nella “casa”, cominciando dalla casella più vicina al lanciatore (prima la n.1 poi la 2 la 3 ecc.).
Dopo aver raggiunto la meta n. 6, si faceva il percorso a ritroso (5, 4, 3, ecc.). Se l’oggetto lanciato si arrestava sulla linea divisoria, il gioco passava di mano all’altro contendente.
Chi percorreva tutto il tragitto senza commettere errori aveva diritto a “comprare la casa”, scegliendo la casella con il lancio del salva-tacco dietro le sue spalle.
La casa acquistata non poteva essere più toccata dall’antagonista, costretto letteralmente a scavalcarla , ma solo dal proprietario. Il problema sorgeva quando le case acquistate erano contigue.
Si giocava promiscuamente, maschietti e femminucce perché era un gioco tranquillo, durevole ed avvincente.
Juché alla vènghe = Giocare alla campana