Vrazzalètte s.m. = Braccetto
Ognuno dei paletti legno infissi in appositi supporti a occhiello, che reggono le due sponde laterali di legno di un carretto.
Era un’ottima arma di difesa dei carrettieri sempre a portata di mano.
Vrazzalètte s.m. = Braccetto
Ognuno dei paletti legno infissi in appositi supporti a occhiello, che reggono le due sponde laterali di legno di un carretto.
Era un’ottima arma di difesa dei carrettieri sempre a portata di mano.
Recipiente di rame e ottone usato come stufa per riscaldare gli ambienti. Vi si poneva la carbonella accesa coperta di cenere per farla durare a lungo.
Aveva un apposito sostegno con tre piedi di ottone, o anche come una specie di supporto di legno, chiamati entrambi ‘u pöte-vrascjire = piede del braciere, e si posizionava al centro della stanza da riscaldare.
Sovente, su un apposito supporto di ferro (detto ‘u trepjite, il treppiedi) conficcato nella cenere, si poneva un tegamino di terracotta per cuocere i legumi o il ragù per sfruttare il calore del fuoco del braciere.
Talvolta il braciere era coperto da una bella “cupola” di ottone, bucherellata con fori di varie forme, per evitare dispersione di cenere e cadute accidentali di bimbetti nel fuoco. Bella, ornamentale funzionale. Il braciere veniva così chiamato vrascjire a cambéne = braciere a campana.
Qualcuno chiamava la sola “campana” con l’appellativo ‘u mòneche = il monaco.
Leggete anche la descrizione di un altro accessorio del braciere, chiamato ‘u diàvele, al significato 2).
Pezzo di stoffa che nasconde una serie di bottoni, una cerniera ecc
Specificamente quella dei pantaloni in dialetto dicesi vrachétte perché dà immediato accesso alle brache = vréche.
Con l’accrescitivo (maschile) vrachettöne s’intende designare qlcu che porta i pantaloni dal cavallo molto basso.
Quèdde angàppe l’öme ( o l’ùmene) pe vrachètte = Costei è una poco di buono
U vöve düce chernüte all’àsene prov.
Il bue dice cornuto all’asino.
Veramente àsene è un termine un po’ dotto: in dialetto normalmente si usa ciócce = ciuco.
Simpatico proverbio che si cita quando qlcu, pieni di difetti, cerca di evidenziare quelli altrui.
Sarebbe come dire: “Senti chi parla!”
Come colui che nota la pagliuzza nell’occhio dell’altro e non vede la trave che ha nel suo. Veramente questa è una citazione di Gesù. Non voglio fare indegnamente accostamenti un po’ arditi, ma voglio evidenziare solo il senso del Detto..
Vöve s.m. = Bue, bove
Al plurale diconsi ‘i vùve. Come in molti animale l’individuo femmina prende un altro nome, come in italiano, In questo caso la femmina di vöve è ‘a vàcche s.f. = vacca.
Mammifero appartenente alla famiglia dei Bovidi (Bos taurus). Quando è allevato per la riproduzione dicesi ‘u töre s.m. = toro, ed è sinonimo di possanza fisica, vigore incontenibile.
Per renderlo mansueto e adatto ai lavori campestri, specie nel trainare il carro e l’aratro, prima dell’avvento della meccanizzazione in agricoltura, gli allevatori lo castravano.
I bovini sono allevati solo per ricavarne latte e carne.
Mi vengono a mente un paio di proverbi su questo bove o vöve.
Vótte Sabbèlle! loc.id. = Forza, dài, coraggio.
È certamente un incitamento, incoraggiamento, un’esortazione, ma perché usare un nome proprio?
Vado per similitudini: “Gratte, gratte Marianne! Cchiù gratte e cchiù guadagne“. Era il grido del venditore di granite ottenute raspando con una specie di pialletta un blocco di ghiaccio (detto ‘u cannùle). L’imbonitore incoraggiava sua moglie di nome Marianna. Da lì è rimasto nel dialetto il termine Grattamarianne = Granita.
Quindi potrebbe essere anche questo “grido” una sollecitazione, un pungolo usato una prima volta verso una certa Isabella, e poi ripetuto e tramandato, dimenticandoci chi era costei, e in quale occasione fu pronunciato questa esortazione.
Adesso, si dice: “Mèh, jé, spicciàmece, dàmece da fé!” = Dài, su…forza sbrighiamoci, diamoci da fare.
I Napoletani dicono: Uagliù, vuttate ‘e mmane! = Ragazzi, muovete le mani, non state in ozio.
Ringrazio Tonia Trimigno per avermiricordato questa colorita espressione.
Chiederò conferma ai miei informatori, che sono più anziani di me.
Vöpe s.f. = Boga
Piccolo pesce di mare commestibile della famiglia degli Sparidi (Boops boops) con tre fasce longitudinali dorate sul dorso argenteo, comune nel Mediterraneo.
Conosciuto comunemente come Opa in Sicilia, come Boba in Romagna e Vopa in Puglia, Campania e Calabria.
Viene considerato un pesce di scarso pregio, ma vi assicuro che è delizioso sia fritto sia nella zuppa. Unico requisito richiesto per passare tutti gli esami: la estrema freschezza.
Le boghe più piccole sono chiamate vuparèlle.
Vònghele s.m. s.f. = Baccello; Vongola
1) Vònghele (almaschile) = Baccello di fava (Vicia faba).
In primavera le fave contenute in questo baccello si mangiano fresche assieme al pane e al formaggio pecorino. Una delizia mediterranea.
Il baccello, una volta seccato, si scarta facilmente lasciando liberi i semi di fava, che si conservano a lungo come gli altri legumi.
Il singolare ‘nu vònghele suona con la ‘ò’ larga, mentre al plurale va pronunciata con la ‘ó’ stretta: ‘i vónghele, o anche ‘i féfe de vónghele le fave in baccello.
Il prof. Michele Ciliberti – cui va il mio ringraziamento – mi fornisce l’etimologia di vònghele:
“deriva dal latino concula che significa “piccola conchiglia”; per indicare il baccello di fava il tardo latino utilizzava il termine conculum al maschile o al neutro, forse come contrazione di conclusum, cioè baccello “chiuso”.
2) Vònghele (al femminile). = vongola
Si tratta della famosa vongola verace (Tapes decussatus), apprezzatissima per il sapore e per il profumo intenso che dà all’intingolo usato per condire i famosi spaghetti alle vongole.
In questo caso vònghele viene pronunciato, al singolare e al plurale, alla stessa maniera, con la ò larga.
Quelle che compriamo sulle bancarelle, di allevamento, provengono quasi esclusivamente Chioggia e dalla laguna veneta: le nostrane sono scomparse forse perché nessuno le va più a raccogliere per la scarsa redditività.
Ho sentito dire da una persona anziana che anticamente le vongole erano chiamate ” ‘i còzzele bònghele” = le cozze vongole (per la solita mutazione della ‘b’ in ‘v’ e viceversa di derivazione spagnola, come il classico esempio di vàrve per barba).
Le vongole comuni (Chamelea gallina), sprovviste di sifoni specifici delle vongole veraci, sono dette in manfredoniano ‘i lupüne = i lupini. Ugualmente buone per preparare intingoli profumatissimi.
In Romagna le chiamano poveràss = poveracce, forse perché, per dimensioni, sfigurano davanti alle loro consimili, quelle veraci, più dotate e più tenere.
Ponfo: Lesione dermatologica rappresentata da un rigonfiamento cutaneo tondeggiante e liscio, di colore rosso o bianco, con alone eritematoso e pruriginoso, tipica di varie forme di orticaria.
Gli antichi attribuivano questi rigonfiamenti ad intasamenti ghiandolari causati da emozione, spavento, gioia, ecc.
Accrescitivo: vecüne grossi ponfi.
Tenghe ‘i càrne vecüne vecüne p’u škande = Ho l’organismo pieno di ponfi a causa dello spavento preso.
Viene chiamata vöche anche il melasma (o cloasma) = gruppo di macchie irregolari giallo-brune che compare sulla pelle del viso delle donne in gravidanza o in seguito a disturbi ovarici.
Al femminile dicesi voccapèrte.
Alla lettera significa “dalla bocca aperta”.
L’aggettivo si riferisce a persona che non sa tenere un segreto, o che parla sempre e a vanvera.
Che è inaffidabile, che non merita fiducia. Anche cialtrone: parla e parla ma non conclude mai niente.