Parare, afferrare al volo, acciuffare qlcu che tenta di sfuggire, o di fuggire, sia dal punto di vista sportivo, sia da quello poliziesco, affrontare deliberatamente qlcu che ci evita.
Mò ca t’acciaffe facjüme ‘i cónte!… = Non ora, ma quando ti avrò alle strette faremo i conti!
Comprimere, pressare con forza qcs. appiattendolo, frantumandolo, deformandolo.
Rompere il guscio di frutti come noci, nocciole, mandorle.
Nanònne pe’ guadagné chjiche cöse acciaccöve i mènele = mia nonna per guadagnare qualcosa, schiacciava le mandorle (per conto terzi per liberare il frutto dal guscio))
Acciacché l’üve = Vinificare, deraspare i grappoli. Anticamente mettevano i bambini e le ragazze a pigiare l’uva nei tini. con i loro piedini
Diventare duro e ammassato come una chjànghe = basola da pavimentazione stradale.
Si riferisce per esempio al materasso, al guanciale, o più specificamente alla pasta cotta e condita che non viene consumata subito e si ammassa nel piatto (C’jì acchjanghéte).
Acchessüne-accuddéne loc.id. = Per filo e per segno, questo e quello, così e cosà, bla bla. Discorso abbozzato.
Si usa questa locuzione quando si vuol riferire ad un interlocutore ciò che un terzo personaggio assente aveva già affermato in precedenza, presumendo che colui che ascolta già conosca l’argomento esposto da quello. Ciò evita di ripetere testualmente o il succo del discorso sottaciuto.
Mamma mia, che spiegazione contorta! Avrò forse confuso i miei lettori?
Qualche esempio, spero, chiarirà tutto.
Jì venüte Giuànne, acchessüne-accuddéne, ce volöve cunvìnge = È arrivato Giovanni, e bla bla bla pretendeva di convincerci.
Agghje ‘ngundréte a Sepònde e, acchessüne-accuddéne, m’ò ditte tutte cose = Ho incontrato Sipontina e, così-così-così, mi ha raccontato tutto.
Mattöje, ho dìtte ca nen putöve venì, ca nen tenöve a màchene, acchessüne-accuddéne, quanda scüse… = Matteo ha detto che non poteva venire, non aveva la macchina, così, colà, quante scuse.…
Questo Matteo non aveva voglia di partecipare ed ha trovato mille scuse per non venire. Lo avevano capito tutti!
Si pronunciava tutta d’un fiato anche nella versione acchéregrazzje (a-chére-e-grazzje)
Credevo che fosse una locuzione locale, ma leggendo Umberto Eco, quindi un grande intellettuale contemporaneo, ho notato che nel suo romanzo “La misteriosa fiamma della Regina Loana”- Editrice Bompiani 2006, ha usato proprio “a cara grazia” nel medesimo nostro acchéragràzzje .
Traduzione letterale della locuzione avverbiale: “a cara grazia”. Ossia sperando nella benevolenza o nella grazia dell’interlocutore. Qualche anziano usa tuttora questa locuzione carica di significato.
Faccio un paio di esempi:
Sò venüte già all’anne passéte: acchéragràzzje se venghe n’ata volte auànne = Sono venuto già l’anno scorso: difficilmente vengo un’altra volta quest’anno.
M’avöva dé tre meljüne. Acchéragràzzje se me ne dé düje.= Avrebbe dovuto darmi tre milioni (ovviamente parlo di vecchie lire): è cara grazia (è preziosa benevolenza, è già molto) se me ne dà due.
Questo sostantivo è usato per lo più in forma metaforica. Insomma più che massacro, sterminio, eccidio, è usato in modo estensivo per indicare un disastro, una rovina, un grave danno.
U vjinde a Sepònde ò fatte n’accesàgghje d’àreve = Il vento, ha Siponto ha causato un’ecatombe di alberi (nella pineta).
Deriva da acciüde e acciüse = uccidere, ucciso.
Voglio scherzare riesumando – vista la somiglianza – un termine dell’italiano parlato nel 1400: uccisaglia!
L’Accademia della Crusca dice che a quell’epoca si usavano anche:
Quando qlcu è così assorto nei suoi pensieri, o intento ad eseguire un difficile lavoro manuale, dicesi che sté accenechéte = è assorbito, preso, immerso, raccolto. Si può usare anche l’agg. ‘ngenechéte.
Credo che questa condizioni, detta ‘ngecalènze. indichi uno stato di cecità mentale che non consente di vedere altro che l’opera cui si è intenti.
Grazie al lettore che si firma Muzio Scevola per il gradito suggerimento.
Il termine è un andato nel dimenticatoio perché si è imposto da anni il barbarismo andecappéte = handicappato.
Persona che si trova in una condizione di handicap, di svantaggio, perché colpita da menomazione fisica temporanea o permanente, o psichica.
Handicap, se non sbaglio, nel mondo dell’ippica significa ostacolo. Beh, immaginate qlcu nella sedia a rotelle quanti ne trova sulla sua via.
Può riferirsi a persona piena di malanni (poliomielite, artrite, artrosi, sciatica, fratture, osteoporosi, ecc.). Insomma è pieno di accidenti, come una partitura musicale piena di diesis o bemolli, che non agevolano la lettura della musica ai poveri dilettanti come me.
Forse porebbe somigliare a “incidentato”, coivolto in un incidente stradale, Dio ne scampi. Quindi malridotto, inchiodato a letto o in una carrozzella.
Parola un po’ desueta, adoperata solo dalle persone più anziane.
Significa strapazzo, affaticamento eccessivo, fatica enorme.
Va bene anche scritta acciüdemjinde, come acciüde, acciüse = uccidere, ucciso da cui ovviamente deriva, come se fosse ‘uccisione’. Questa fatica è immane, mi farà soccombere, è al di sopra delle mie forze, mi ucciderà.
Fràteme sté accedendéte, e pe javezàrle ogne vòlte jì ‘naccedemjinde = Mio fratello è infortunato, e (l’atto di) sollevarlo, ogni volta è (per me) uno sforzo immane.