Acquaquagghjé

Acquaquagghjé v.t. = Concludere

Accettabile anche la versione “breve”  quaquagghjè.

Generalmente il verbo è coniugato in modo negativo, per significare l’incoerenza, l’azione sconclusionata di pasticcioni.

So’ trè jùrne ca ‘u pettöre sté mbacce a ‘sta chése e n’ho acquaquagghjéte angöre njinte! = Sono tre giorno che il tinteggiatore è intento a lavorare a questa (mia) casa ma non ha compiuto ancora nulla.

L’Avvuchéte remànde e remànde ma n’acquaquagghje mé njinde = L’Avvocato con fa altro che rimandare senza arrivare mai ad una conclusione.

Presumo che derivi dal mondo della pastorizia, ove quagghjé (cagliare) indica la laboriosa trasformazione del latte in ricotta, mozzarelle e formaggio.

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Lazzaréte

Lazzaréte agg. = maloconcio, malridoitto

Qualcuno pronuncia anche lazzariéte. 

Si descrive una persona con numerosi segni di percosse, con di abiti sbrindellati,

Ma che jì succjisse?Sté tutte lazzaréte = Ma cosa ti è accaduto? Sei proprio malmesso!

L’aggettivo deriva sicuramente dal racconto di Gesù quando parlava del ricco Epulone e del mendico Lazzaro, immaginato pieno di stracci e di ferite leccate dai cani.

A volte si usava la locuzione: Sté accüme a Sante Làzzere per descrivere lo stato miserevole di qualcuno male in arnese.

Ringrazio Amilcare per il suggerimento.

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Talié

Talié o anche Jì taliànne v.i. = bighellonare

Girovagare, vagabondare, perdendo tempo, senza una meta o uno scopo.

Ma add’jì ca jéte talianne pe stu frìdde? = Ma dove andate in giro con questo freddo?

Mattöje ne llu truve méje alla chése! Códde ce ne vé škìtte taljanne = Matteo? Non lo trovi mai in casa! Costui se ne va sempre a zonzo.

Si usano anche, ma con significato sempre scherzoso, i verbi scussjé  (←clicca) e  jattié.

Il famoso scrittore napoletano Luciano De Crescenzo, riferendosi al verbo greco αγοραζειν = agorazein (ossia “uscire in piazza”), per adattarlo allo spirito innato dei Napoletani,  usa il verbo “intalliarsi” da cui deriva il nostro talié, e gli dà questa simpatica spiegazione: «…uscire di casa senza un’idea precisa, gironzolare…in attesa che si faccia l’ora di pranzo»
(Luciano De Crescenzo “Storia della Filosofia greca – I Presocratici” 1980-Arnoldo Mondadori Editori).

E noi cosa abbiamo di diverso dai Napoletani?

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Zianjille

Zianjille agg. n.p. = Gracile, personaggio del presepio.

Questo aggettivo deriva dal nome proprio regionale Aniello, diffusissimo tuttora in Campania. Ricordiamoci che la nostra Puglia faceva parte del Regno di Napoli (o delle due Sicilie), e che Funzionari Amministrativi e Membri Militari napoletani erano presenti anche da noi.
Quindi Zianjille significa  semplicemente Zio Aniello.

Probabilmente questa persona era minuta, magrolina, gracile,  tanto che i nostri nonni l’hanno tramandata fino a identificarla con uno dei pupi del Presepio.  Il famoso Zianjille ìnd’u presèpje.

Forse le nuove generazioni non ne hanno mai sentito parlare, ma il pupo Zianjille  era il primo ad affacciarsi alla grotta del Bambinello, prima ancora dei pastori e delle pecorelle.

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Gràvede

Gràvede agg. = Pregna, gravida. Donna che è in stato di gravidanza.

In italiano corrisponde a gravida, aggettivo riferito a femmina dei mammiferi, che è in gravidanza.

Anche la femmina umana è, scientificamente parlando, un mammifero. Le nostre nonne usavano gràvede. pröne, prègne, non altra definizione. Retaggio della civiltà pastorale e contadina.

Insomma la donna in attesa era definita con lo stesso termine usate per le coniglie, le gatte, le scrofe, le giumente, le pecore, e tutti gli altri animali femmine.  Troppo riduttivo, anzi per me, è un po’ spregiativo. Le generazioni successive dicevano che la gestante si doveva accatté ‘u uagnöne = comprare il bambino.

Quelle attuali.usano ngìndeaspette ‘nu uagnöne.

Sepònde sté gràveda gròsse = La signora Siponta è incinta ed è all’ultimo stadio di gravidanza, è ormai prossima al parto.

Noi monellacci di strada, sulle note della marcia di “Garibaldi fu ferito….”, l’inno dei garibaldini, cantavamo una canzonaccia oscena in dialetto che mi astengo di trascrivere per intero. L’amore per il lessico dovrebbe farmi superare ogni titubanza, ma io sono un timidone….

Ecco il riassunto della storiella: una figliola confida alla madre il suo stato di gravidanza. E la madre chiede lumi.
Alla poveretta fanno pronunciare le parole con una accento un po’ diverso, come per mascherare la sua origine manfredoniana.

Scrivo solo la prima parte:

– Màmma mamme me sènde gràvede..
– Figghja fìgghje chi t’à mundate?
– M’à mundate ‘u Guardiane, sòtt’u pònde de Regnàne… 
ecc. ecc.

Mamma, mamma. mi sento incinta.
Figlia, figlia, chi ti ha fecondata?
Mi ha ingravidato il Guardiano sotto il Ponte di Rignano…

Anche qui si usano i verbi montare, ingravidare. Lo stesso linguaggio usato per le bestie.

Potrei anche trascrivere il seguito, ma non vorrei che i benpensati diano l’ostracismo a questo mio faticoso lavoro a causa di una sciocchezza….

Se qualche “mascalzone” della mia età conosce il resto della canzonaccia, lo faccia lui nella replica a questo articolo!

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Calannàrje 

Calannàrje s.m. = Lista, elenco, programma.

Specificamente si dice che qlcu o qlco non è a calannàrje se è imprevista, inaspettata.

Statte cìtte ca ne stjive pe njinte a calannàrje = Taci tu, che non eri stato preso per nulla in considerazione (non eri nella lista)

Mò cust’ate fatte ne stöve pe nnjinde ‘ngalannarje = Adesso quest’altro fatto è del tutto imprevisto (non era in lista, non era programmato)

Ora i Manager Aziendali dicono che non è in Agenda, o in Planner.

Forse deriva dal sostantivo “calendario”, lunga lista con ben 365 Santi e altrettanti giorni.

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Nen putì vedì

Nen putì vedì loc. id. = Esecrare, disdegnare, odiare

Un’espressione ricorrente nel linguaggio di ogni giorno.  Alla lettera significa “non poter vedere”, ossia è detestabile, odioso, fastidioso ai miei occhi.

Essere contrariati dall’atteggiamento di una persona, dal malfunzionamento di un attrezzo o di un’apparecchiatura, dal persistere di avversità atmosferiche o di altro genere.

Quante nen pozze vedì ca ogni jurne ce mètte a chjöve = Quanto detesto (il fatto) che ogni giorno si mette a piovere.

Nesciüne pöte vedì a códdu sbafandüse = Nessuno può sopportare quell’arrogante.

Nen pozze vedì quanne ‘stu cazze d’ascenzöre ce blocche, e succiöde sèmbe de dumèneche = Odio quando quest’accidente di ascensore si blocca, e succede sempre di domenica!

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Nen ce sté spusalìzzje ca nen ce chjange e funeréle ca nen ce rüre

Nen ce sté spusalìzzje ca nen ce chjange e funeréle ca nen ce rüre

Non c’è matrimonio ove non si pianga e funerale ove non si rida.

Lacrime e risate forse rispettivamente fuori luogo.

Le lacrime ad un matrimonio possono derivare dalla forte emozione, o anche da diverbi nati fra i parenti degli sposi, per questioni futili (come la collocazione degli stessi ai tavoli in sala o nel luogo ove si è celebrata la cerimonia nuziale)  o, peggio, da litigi per motivi  di interesse.

Alle interminabili  veglie funebri, specie fra ragazzini, per superare emozioni e stress, serpeggiano risate liberatorie, incontenibili proprio perché “proibite”.

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