Ardüche

Ardüche s.f. = ortica

L’ortica (Urtica dioica) è un’erba infestante diffusa in tutto il mondo. “Si trova frequentemente nei terreni azotati, ad esempio tra le macerie e i luoghi incolti, vicino ai centri abitati, o nei lati più umidi e ombrosi dei boschi, dal mare alla montagna” (Wikipedia)

È un pianta erbacea della famiglia delle Urticacee con numerose specie diffuse n tutto il mondo, dalle zone tropicali a quelle temperate. Quasi tutte sono dotate di temibili peli urticanti sul fusto e sulle foglie.

Trova largo uso in erboristeria per le sue qualità antinfiammatorie e diuretiche.

Ho scoperto con raccapriccio che l’ortica è usata anche in gastronomia perché – udite udite! – alcuni la mangiano (dopo averla lessata) nei ripieni dei ravioli, nei risotti, o nel pesto con pinoli e pecorino, al posto del tradizionale basilico.

Ce la mangiàssere löre!

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U lùche cchjù frìdde jì ‘u fucarüle

 ‘U luche cchjù frìdde jì ‘u fucarüle = il luogo più freddo è il focolare

È un Detto antico che descrive le condizioni di indigenza di una famiglia nella di cui casa il focolare – che dovrebbe essere il suo suo luogo più caldo –  è  miseramente gelido per il fatto che non si cucina da tempo.

Se il focolare, ‘u fucarüle (←clicca) è il luogo più freddo, figuratevi il resto della casa!

Purtroppo fino al 1951 non esisteva la “Cassa integrazione guadagni”, né l’indennità di disoccupazione, e se il capo famiglia si ammalava o perdeva il lavoro, in assenza del salario, in casa sua tutti soffrivano letteralmente freddo e fame!

Però  lodevolmente molto spesso scattava la solidarietà del vicinato che interveniva con cibarie di prima necessità.

Ho visto mia nonna che aveva staccato un grosso pezzo di pane dalla sua pagnotta, lo ha celato sotto il grembiule e lo ha portato ad una famiglia che versava in queste condizioni.  Lo consegnò alla mamma,  “pe fé mangé ‘i uagnüne“, per delicatezza, in un angolo appartato della casa, senza che nessuno la vedesse,  per non intaccare la dignità di quella mamma.
Che tempi tristi!

A volte il Detto descrive anche figuratamente delle situazioni di disagio o di difficile soluzione, o di accoglienza non proprio entusiasta,

Il sostantivo lùche = luogo, è un po’ arcaico, ed è stato soppiantato dal più sbrigativo “pòste” = posto, luogo, sito.

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U péne jìnd’u cìcene…

Il Detto completo recita:

Te fazze trué
‘u péne jìnd’u cìcene
e l’acque jìnd’u canìstre.

Era una esplicita minaccia delle mamme rivolta a quei marmocchi irrequieti.
Sì ti darò pane e acqua, ma nei contenitori inadatti in modo che non tu possa raggiungerli. +
Una punizione severa.

Infatti il pane nell’orciuolo (clicca→u cìcene) non si può estrarre, e l’acqua nel canestro non può essere contenuta.

Come quando si minaccia di far vedere i sorci verdi.

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Ciavarre

Ciavarre s.m. = Capretto

 È un termine usato nel settore della pastorizia pervenutoci tale e quale dal dialetto abruzzese.

Nel corso dei secoli transumanza (la migrazione stagionale di greggi e pastori che venivano a svernare in pianura) ha portato, oltre agli ovini, anche molti termini abruzzesi o molisani in Capitanata. E non solo quelli attinenti la pastorizia.

La trasmigrazione linguistica avviene in tutto il mondo tra comunità confinanti. La Basilicata, per esempio nella parte nord-orientale (il Vulture-Melfese) ha una cadenza foggiana. Nella parte nord-orientale si avverte il campano. Nella parte sud-occidentale sembra calabrese, e nelle zone sud-orientale sembra barese.

 

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Sestüse

Sestüse agg. = Nervoso, inquieto, eccitabile

Riferito a persona che mostra impazienza, nervosismo, ansia.
Scientificamente andrebbe scritto “səstüsə“. Non lo farò più.

Sté sestüse ‘u uagnöne = è irrequieto il bambino

Deriva dal sostantivo  sóste  (nella forma più arcaica si diceva sumasóste)  

Il termine più antico “sèste” si è modificato in “sóstë” sempre con significato di ansia, inquietudine.

Al superlativo è “sumasóstë” =  iper agitazione, nervosismo, concitazione.

Ma i bufali inquieti, almeno quelli allevati nelle nostre campagne,   proprio non  li vedo, perché sono sono sempre tranquilli a pascolare o a ruminare!

Che provenga da “siesta“? L’immobilismo totale della controra.

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Darasse dau cüle müje!

Darasse dau cüle müje!

Il Detto completo è ancora più esplicito:

Abbaste ca sté ‘nu palme darasse dau cüle müje = basta che stai un palmo distante dal culo mio.   Insomma noli me tangere

Figuratamente il Detto acquista un significato un po’ egoistico:
Ognuno faccia quello gli pare, purché non tocchi i miei interessi.   
La cosa non mi riguarda. 
L’operato altrui può essere giusto o sbagliato, a patto che io vi non venga coinvolto.

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Oh fìgghje!

Oh fìgghje! escl. = Oh, figlio!

Variante: Uh, fìgghje müje! o anche Códdu fìgghje!, o Figghjarjille! (femm. figghjarèlle!)

È un’esclamazione propria di affetto, di solidarietà, rivolta verso qualcuno che si è fatto male o che si lamenta per qualche torto ricevuto.

Se il frugoletto, cadendo, comincia a frignare (anche se non si è sbucciato alcun ginocchio), la mammina lo solleva, lo abbraccia premurosa e gli sussurra con voce lamentosa: Oh fìgghje!.
Segue un cerimonia consolidata:
a) un bacio taumaturgo sulla parte dolorante che rimuove istantaneamente qualsiasi sofferenza anche futura:
b) una dose vendicativa di pedate al pavimento “cattivo” colpevole di aver provocato il ruzzolone con accompagnamento vocale : “Tèh, tèh!, Cattiiivo!””

Talvolta l’esclamazione diventa uno scherno, per beffeggiare gli adulti che si lamentano per ogni minima contrarietà che la vita riserva a tutti i viventi.

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Mariandò, ‘u tarramöte!

Mariandò, ‘u tarramöte!

Questo Detto descrive una situazione tragicomica.
Una certa Maria-Antonia era una persona tranquilla, posapiano, impassibile davanti a qualsiasi situazione di emergenza o emotive.  Insomma una persona dal connaturato sangue freddo.

Si narra che un familiare della nostra eroina, nel mettersi in salvo mentre era in corso un terremoto, avesse urlato – per avvertire la congiunta del rischio che si correva rimanendo in casa –  la fatidica frase: «Mariandò, ‘u tarramöte!» = Maria-Antonia, (mettiti in salvo perché sta facendo) il terremoto!

Per tutta risposta ebbe un laconico: «Mò, mòoooo…» = Adesso vengo, aspetta un attimo, non darmi fretta…..

Nella lentezza della replica, quel Mò, mòoooo… forse voleva esprimere un concetto un po’ più articolato, come ad esempio: « Ho capito, va bene, adesso cerco il modo più agevole per mettermi al riparo dal pericolo imminente causato dal sisma».
Ovviamente senza punti esclamativi!

Così quando si chiede rapido soccorso, una mano d’aiuto per un’emergenza, e l’interlocutore si mostra smarrito perché non ne comprende immediatamente l’urgenza, o perché non sa che pesci pigliare, si ricorre spazientiti al breve enunciato, a domanda e risposta  : «Mariandò, ‘u tarramöte!…..Mò, mò!».

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Prèsèndatàrme

Presèndatàrme s.m. = Rimprovero solenne, rimbrotto

È ben noto il significato letterale. di questo Comando militare alla voce, con cui si ordina ai soldati inquadrati di “presentare le armi” (da fuoco per la truppa e la sciabola per i graduati) in segno di onore e saluto. «At-tenti! Ri-poso! Presentàt-arm!»

Nella nostra parlata ‘u presèndatàrme  per l’imperiosità della voce, assume un significato di rimprovero verbale molto forte, un vero e solenne cazziatöne fatto in pubblico.

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Mafìsce

Mafisce escl. = Finito, terminato

Si usa questo bisillabo, dall’arabo māfīš; per dire “non ce n’è più, è finito tutto, terminato” prillando la mano con l’indice e il pollice distesi.

Si riferisce a cibo o ad altro quando perviene una richiesta fuori tempo massimo.
Mafìsce, ne’nge sté cchjó nnjinde!  = Finito, non c’è sta più niente!

Talora si usa anche l’espressione  finish! una contrazione dell’inglese finished = finito, ultimato, esaurito.

A volte in silenzio, basta il solo gesto del polso per indicare che non ci sono residui….

 

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