Seröne de vjirne…

Sèröne de vjirne è cüle de criatüre ne jèsse mé secüre.

È un antico Detto marinaresco che mette in guardia i pescatori da una serena giornata invernale.

Entrambi possono tramutare in maniera inaspettata e repentina il loro ingannevole stato di quiete, in peggio, ovviamente.

Infatti in questa stagione il tempo mutevole d’inverno può serbare imprevedibili sorprese, con scariche abbondanti e improvvise, proprio come fa il culetto dei lattanti.

Come quasi tutti i proverbi, anche questo raccomanda la massima: prudenza per non trovarsi impreparati. alle emergenze.

Ringrazio sentitamente il dr. Matteo Rinaldi per la sua preziosa imbeccata che mi ha consentito la stesura di questo articolo.

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Nen ce capisce a pèzz’u scitére.

Nen ce capisce  a pèzz’u scitére.

È un Detto antico quando si constatava, con costernazione, lo stato di povertà di una persona o di un qualsiasi dimora.

In pratica, alla lettera, significa che non si riesce a comprendere quale sia il tessuto originale, perché tante volte rattoppato con pezze differenti per specie o colore.

Ringrazio gli amici Rinaldi e Caratù, autori del pregevole “Vocabolario di Manfredonia” i quali mi hanno inviato un grazioso commento, ove spiegano anche l’etimologia di scitére, sinonimo ormai desueto del già vetusto (clicca→) pannazzére.

«Dal  proverbio si deduce che il nostro dialetto raccoglie anche termini arabi, oltre a immagini del tempo passato: la gente povera (ma laboriosa!) che indossava vestiti rattoppati mille volte (tanto da non poter capire quale fosse il tessuto originario!).
Ricordo ‘gli sciabbicaioli’ in mutandoni multicolori, quando tiravano a riva la sciabica,
Shitan,  in arabo (scritto con una sorta di disegno, come si esprimono gli arabi) vuol dire ‘tessuto, panno’, per cui l’attinenza è chiara. Il sinonimo è il noto ‘pannazzére‘ (voce dialettale adottata fino a mezzo secolo fa)».

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Recurdèvele

Recurdèvele agg. = Ricordevole, memorabile, indimenticabile

L’aggettivo (è corretta anche la variante arrecurdèvele) da noi ha una valenza negativa, pressocché costante.

Gli avi ce lo hanno tramandato perché si ricordassero le giornate nefaste, disgraziate, tristi, segnate indelebilmente nella memoria collettiva da terremoti, pestilenze, disgrazie, ecc. accadute in tempi remoti.

Quasi sempre l’aggettivo si riferisce a giornate fisse, marcate nel calendario nelle quali bisogna essere prudenti in ogni azione, o meglio evitarle del tutto. Queste sono dette jurnéte arrecurdèvele.

Si usa anche la locuzione (clicca→ qui ) pónte de stèlle = punti di stelle, ossia giorni infausti segnati dalle stelle.

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Se ce n’assüme da ‘sti botte…

Se ce n’assüme da ‘sti botte
nen assüme cchjó före a caché la notte

Alla lettera: se ce ne usciamo da questi botti, non usciamo più fuori a cacare di notte.
In italiano più scorrevole direi: Se veniamo fuori da questi immanenti pericoli, la vita sarà ci sembrerà più agevole e tutto sarà più facile.

La nascita di questo proverbio potrebbe essere collocata nelle trincee durante la grande guerra, ove i soldati erano continuamente insidiati dagli spari nemici dell’artiglieria dei cecchini.
Per espletare i loro bisogni corporali erano costretti ad uscire fuori trincea, di notte, ma sempre in gran tensione.

L’agognata cessazione delle ostilità avrebbe consentito loro di defecare in tranquillità, al chiuso, mentre quando lo facevano al fronte, erano sotto l’incombenza di una fucilata del nemico.
Il verbo cacare qui ha funzione omnicomprensiva, cioè indica qualsiasi azione fatta senza minaccia e in piena libertà.

Quindi, in qualsiasi momento di tribolazione, si deve auspicare che passi al più presto.

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Sdrumatöre

Sdrumatöre s.m. = battitore (mar.)

Lo sdrumatöre (al plurale fa sdrumatüre). era un arnese da lavoro usato in passato per praticare uno specifico tipo di pesca, detto ´u sdröme, da noi pressocché scomparso, come ´a sciabbeche.

L´attrezzo era costituito da un´asta di legno di varia lunghezza (max 2 metri, ossia a seconda dell´altezza della murata dell´imbarcazione).
Ad una delle estremità della pertica veniva fissato un largo disco,  anche esso di legno.  L´altra estremità fungeva praticamente da manico.

L´attrezzo, impugnato dal marinaio, veniva manovrato dalla barca battendo il disco sul pelo dell´acqua. In aggiunta talvolta si batteva il mare anche con la pala dei remi.

Riporto la descrizione che, assieme alla foto, mi è stata fornita da Bruno Mondelli, cui va il mio sentito ringraziamento.

«Il rumore spaventava i pesci che, presi dal panico, fuggivano incuranti delle reti che erano state posizionate in precedenza attorno a loro, finendo inesorabilmente intrappolati dalle sottili maglie.»

Quello di far rumore per spaventare gli animali sulla terra ferma era usato in Africa nelle battute di caccia grossa. Per stanare e indirizzare le bestie  selvatiche (tigri, zebre, ecc.) verso il luogo di appostamento dei tiratori, si impiegavano decine di indigeni che avanzavano affiancati,  urlando e percuotendo tamburi o altro materiale sonoro.
Tuttora in uso in Sardegna per la caccia al cinghiale.

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Alla vecchjéje ‘i calze ròsse

Alla vecchjéje i calze ròsse

È una manifestazione di sorpresa per un fatto inusuale, strano o innaturale.

Mio padre mugugnava – quando osservava qualche azione inattesa, discordante o sorprendente – questo Detto, che esprimeva una forte valenza negativa:

Insomma sarebbe cosa buona e giusta fulminare, ad esempio, una settantenne che si mostrasse in spiaggia indossando un improbabile tanga, oppure un Gigi D’Alessio qualora manifestasse una inspiegabile passione per la musica jazzistica o per il rap.

Il Detto calza bene (scusate l’involontario calambour sulle calze) anche se non riguarda specificamente una persona fisica, come ad esempio un Carnevale fuori stagione, o le ciliege a dicembre (per quanto ora si possano reperire tutto l’anno) o il capitone a ferragosto….

Nota linguistica:
Le calze in dialetto sono chiamate propriamene cavezètte, ma il Detto è fortemente ironico, e perciò usa il termine simil-italiano càlze.

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Fröca-pezzènte

Fröca-pezzènte s.m. = Vento gelido di tramontana.

È un modo semiserio di indicare il vento gelido di tramontana.

Alla lettera significa che è micidiale per i poveri mendicanti (i pezzenti, appunto, clicca qui) che, non avendo panni per coprirsi, sono esposti alle conseguenze nefasti della tramontana.

Scherzosamente è detto anche feleppüne.

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Saréche

Saréche s.f. = Salacca, spratto, papalina, saraghina.


È un pesce nordico (Sprattus balticus) che viene pescato principalmente presso le coste Norvegesi, Inglesi, Belghe, Olandesi e Germaniche, del Mare del Nord e del Mar Baltico. Nella specie Sprattus Sprattus, sono diffuse anche nel Mediterraneo e nel Mar Nero.

Appartiene alla famiglia dei clupeidi ed è molto simile alla sardina. La sua lunghezza massima è di 17 cm. Il dorso è di colore scuro e bluastro, i fianchi ed il ventre sono bianchi. Per la commercializzazione le salacche venivano salate, e affumicate, e pressate in un contenitore circolare di legno. Infatti si presentavano con i fianchi giallastri proprio per effetto dell’affumicatura.
Le salacche più piccole erano dette sarachèlle.

Era considerato un cibo povero, tanto è vero che attualmente non ne vediamo più in commercio. Con una “sarachella” e un pezzo di pane a testa riusciva a cenare tutta la famiglia.
Tuttavia era molto apprezzato in quanto ricco di proteine e grassi, ma sopratutto perché reperibile ad un prezzo accessibile.

Figuratamente ‘na saréche designava un colpo secco o nel gioco del calcio, un tiro potente. Indicava anche una persona molto magra come si presentava la salacca affumicata.

Chépe de saréche invece è un eufemismo per indicare una persona dall’intelletto smorto o dal comportamento bislacco.

Chépe de saréche tuttora è usato (come dicono quelli che sanno la grammatica) anche quale “locuzione esclamativa propria” di incredulità, di sorpresa o di ammirazione. Insomma un eufemismo come patecà, usato per non cadere nel volgare.

Generalmente saréche in maniera figurata indicava un discorso o un apprezzamento di scarso valore. Come quando si vuol smentire qualcuno, come per dire che le sue sono affermazioni senza valore, da scartare, si usava a commento: « sì,…. chépe de saréche!»
Similmente, riferendosi ai gusci vuoti delle canestrelle: «Sì, carècchje» = Sì, tu dici parole vuote, senza costrutto.

Parlo al passato perché i ragazzi di oggi non sanno nemmeno che cosa siano queste saréche.


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Ammundené

Ammundené v.t. = Ammucchiare, accumulare

Deriva direttamente dallo spagnolo amontonar [Poner unas cosas sobre otras de manera desordenada o descuidada, formando un montón.]. Porre alcune cose sopra altre in maniera disordinata o senza cura, formando un mucchio.
È ad esempio il pietrisco ammundenéte = ammuchiato perché scaricato da un camion ribaltabile. formando ‘nu mendöne = un cumulo.

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Affrangàrece

Affrangàrece v.i. = Esimersi, liberarsi.

Esimersi da un rischio, da un pericolo o da una responsabilità.
Esentarsi da un obbligo rinunciare ad una carica, svincolarsi da un impegno, scampare ad un pericolo, sfuggire ad una minaccia.

Il verbo deriva da franghe = franco, nel senso di libero.

Jogge jì male-tjimpe e me stéche a chése, acchessì me l’affranghe di assì p’a varche = oggi fa cattivo tempo e restoa casa, così mi scanso di uscire (in mare) con la barca.
Trùve ‘na scüse acchessì te l’affranghe = Trova una scusa così ti liberi (da quell’impegno non importante).
Usato anche in modo canzonatorio, come antifrasi: Nen ce vù venì alla feste? Te l’affranghe! = Non vuoi venire alla festa, peggio per te!



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