Smezzé

Smezzé v.t. = dimezzare, svuotare parzialmente

In verbo deriva da “mezzo” inteso come metà. Quindi “dividere, svuotare, liberare a metà”

Si usa dire smezzéte = dimezzato, anche se un contenitore qualsiasi non è stato svuotato proprio a metà, ma in misura molto variabile.
Come dire: jì stéte tucchéte = è stato “toccato”, non è più intonso. Può essere un quasi pieno o un quasi vuoto…

Generalmente si tratta di contenuto liquido (olio, vino, latte…).
‘Sta buttìgghje sté smezzéte = Questa bottiglia non è più completamente piena.

Talvolta è riferito a contenuto arido (riso, sale, caffè…)
U sacche d’a farüne sté smezzéte e momò ce fenèsce = Il sacco della farina è (più che) dimezzato, e sta per finire.

‘U buatte du cafè jì stéte stéte smezzete = il barattolo del caffè è stato iniziato (non è completamente pieno).

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Jazze

Jazze s.m. = ovile, addiaccio, recinto per pecore

Il termine, per effetto della transumanza, è diffuso in tutta la Daunia e nella Basilicata settentrionale.

Deriva dal latino adiacére = giacere accanto. Questo verbo è all’origine anche del sostantivo “addiaccio”.

Altri riconducono la derivazione, sempre dal latino, al sostantivo jacium = giaciglio

Un Detto di Bovino, ma similmente diffuso anche nel Melfese e nel Materano recita:
Chi jè figlie de bbuòna razza tòrne sèmbe a lu jazze. = Chi è figlio di buona razza torna sempre a casa sua.
In questo caso non parliamo di recinto di pecore ma di “casa” nel senso inglese di home, cioè di familiarità, affetto, accoglienza.

A Matera esiste un’attrazione turistica sulla Murgia chiamata «Jazzo Gattini», che è un antico ovile del XIX secolo completamente ristrutturato.

Da non confondere con jazz, il notissimo genere musicale, la cui pronuncia è “giaas”, e nemmeno con jazzebbande (clicca qui) pronunciato “iazz-bband”, ossia la grancassa o la batteria.

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Quanne passe pe ‘nanze a caste, che me dé?

Era uno scherzo che facevano i più grandicelli verso noi ragazzotti di primo pelo. Uno di questi giovinastri, puntando il dito verso uno di noi pischelli, domandava a bruciapelo:
«Quanne passe pe ‘nanze a caste, che me dé?» = Quando passo davanti casa tua, cosa mi dai?

Noi, credendo di essere smaliziati, rispondevamo con una parolaccia:
«’Stu cazze!»
L’altro ribadiva immediatamente:
«Stu cazze ‘ngüle a màmete
e ce nasce ‘na tarande,
‘a tarande pìzzecagnöle.
Quanne passe pe ‘nanze a caste, che me dé?
» =……..va nel culo di tua madre e ci nasce una tarantola, la tarantola pizzicante/pungente, quando passo…ecc.
Allora noi, conoscendo ormai la trappola, rispondevamo nominando un oggetto meno invasivo:
-«’Na cerése!» = una ciliegia.
E quello, imperterrito, replicava:
«’Na cerèse ‘ngüle a màmete
e ce nasce ‘na tarande,
‘a tarande pìzzecagnöle.
Quanne passe pe ‘nanze a caste, che me dé?
»


La cosa si prolungava all’infinito.. Al quesito si rispondeva con: confetto, salsiccia, mutanda, profumo, polpetta, ecc. ma non più con una parola sconcia.

Ho constatato di persona che nel Napoletano esisteva lo stesso “gioco”. Non lo traduco perché mi pare molto chiaro.
-«Quanne passo ‘a casa ‘e màmmeta, che me faje truvà?»
-«’Nu peparuolo»
-«’Nu peparuolo ‘nguorpo a màmmeta,
e cetrìngulo, e cetràngulo…
Quanne passo ‘a casa ‘e màmmeta, che me faje truvà?»


Quel “citringulo e citrangulo” è un non-sense che serve a mantenere il ritmo cadenzato dei “versi” burleschi.

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Früse

Früse s.m. = Fregio, gallone


Il sostantivo è usato sempre al plurale (‘i früse) per indicare, nelle uniformi militari, delle strisce di stoffa di altezza e forma svariate, cucite sulla manica di ufficiali, sottufficiali, graduati di truppa per indicarne il rango.

Immediatamente riconoscibili, hanno disegno diverso per ogni Corpo (Aeronautica, Esercito, Marina).

Sono detti früse anche i contrassegni cuciti sul berretto dei militari, subito sopra la visiera


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Magghjé

Magghjé v.t. = castrare

Verbo orribile (magghjé può sembrare che significhi “colpire con il maglio”) riferito alla castrazione delle bestie, allo scopo di aumentarne la massa corporea e per rendere le carni più tenere, come nei capponi, o senza forti odori, come negli ovini.

Principalmente con l’aggettivo/sostantivo magghjéte = castrato, si intende l’ovino maschio sottoposto al taglio degli zebedei, o la sua carne sul banco di vendita delle beccherie.

Mi domandavo da bambino se c’era differenza fra il toro e il bue. Ho imparato che non è questione di indole naturale, uno irruento e l’altro mansueto… No, è solo questione di palle, come d’altronde accade con gli esseri umani. Chi le ha e chi no (anche metaforicamente).

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Cirre-matte

Cirre-matte s.m. = Ricciolo ribelle

Parliamo di capigliatura

Capelli ribelle al pettine, perché arruffati, in quanto i bulbi piliferi disseminati a spirale sul cuoio capelluto,specie al culmine della testa.

Quando il cranio è rapato a zero, la maggior parte dei bulbi sembrano tanti puntini cosparsi con andamento regolare, ma altri seguono uno svolgimento a vortice, e talora a doppia spira.
Se quelle sono le radici lo stesso andamento prenderanno i capelli allungandosi, e quindi il pettine non riuscirà mai a piegarli nella direzione voluta.

Cirre significa in questo caso ciocca, ciuffo.

Un Detto montanaro ricorda che “cüme tènghe li cirre, tènghe li sinze” = Come ho i capelli così ho i sentimenti (ribelli).

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Salamöre

Salamore s.f. = salamoia

Soluzione di cloruro di sodio (sale da cucina) in acqua ad una concentrazione di circa il 5%, allo scopo di conservare i cibi. Usato dalle industrie nella preparazione di alcune conserve vegetali o talvolta al posto dell’aceto.

Trova impiego anche in ambito domestico perché il suo effetto conserva gli alimenti bloccando lo sviluppo di agenti batterici,
Specificamente la salamöre (arricchendo la soluzione con semi di finocchio, spicchi aglio, mortella o altri aromi) viene preparata come “concia” per le olive.

Il termine deriva dallo spagnolo salmuera.


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Parapalle

Parapalle s.m. = Parapalla

Ho usato come traduzione “parapalla” che in italiano significa tutta un’altra cosa, ossia una protezione inguinale indossata dagli atleti nello sport di lotta o in quelli dove possono avvenire scontri violenti, a salvaguardia delle parti basse.

Nel nostro caso mi sento autorizzato a tradurlo proprio “parapalla”, perché il Vate D’Annunzio, autore di tanti neologismi, sfottendo il suo amico F.Paolo Tosti in una lettera del 1906 lo ha apostrofato come “parapalla fesso”

Trascrivo – perché perfettamente combaciante con i nostri ricordi – quanto riportato sul sito web “Luceranostra.it”:
«Il parapalla era un passatempo fatto con una piccola palla di stoffa piena  di segatura e attaccata stava un lungo elastico con un anello alla punta, dove s’infilava il dito medio della mano. Con la stessa mano si lanciava la palla e quando  ritornava si doveva  “parare” con la stessa mano. I più bravi facevano questo movimento velocemente e senza sbagliare.
Il parapalla si usava anche per stuzzicare i compagni più irascibili: si lanciava la palla dietro il collo del compagno e dopo parata la palla con la mano, si nascondeva nella tasca e quello si arrabbiava come un diavolo. Il parapalla si comprava  presso le bancarelle durante le feste».

Aggiungo che i bancarellari evidenziavano la loro mercanzia con alte grida di richiamo.
Per il parapalle usavano lo slogan:
«’O parapalle, ‘o parapalle, tocca e non fa male!»

Qualche giovinotto sfacciato lo lanciava verso le terga della donzella che lo precedeva durante lo struscio. Quando la ragazza si voltava inviperita, il furfantello aveva già nascosto l’arma del delitto, ed era abbondantemente a distanza di sicurezza per destare alcun sospetto.
Una mascalzonata che rischiava, se scoperta, un finale in rissa.

Foto dalla pagina FB “Lizzano-Foto-Ricordo-Come-Eravamo”

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Ménaröle

Ménaröle s.f. ( o Vròcchele)= Menarola, girabacchino

Si tratta di un trapano a manovella usata per praticare fori nel legno fino al diametro di 12 mm. Non è adatto per forare il ferro, ove è richiesta una forza maggiore.

L’impugnatura rotante è eccentrica rispetto all’asse dell’attrezzo, che termina generalmente con un mandrino per il fissaggio della punta perforante.  La parte superiore termina con un pomello reggispinta, anch’esso rotante.

Usata anticamente dai carradori e tuttora dai falegnami restauratori per piccoli interventi. Con termine ormai desueto era chiamata anche vròcchele, (etimo sconosciuto) o più semplicemente tràpene a méne = trapano a mano, o ggirabbacchìtte = girabacchino.

Per fori in orizzontale su infissi verticali si appoggiava il pomello superiore al petto per avere maggiore spinta. Per i fori verticali si premeva con palmo della mano sinistra,  mentre l’altra si girava la “manovella” del girabacchino con moto destrorso.
Le menarole di ultima generazione erano munite di un cricchetto unidirezionale al mandrino che consentiva di manovrare anche a un quarto di  giro per volta quando si operava in ambienti angusti.

Parlo al passato perché al giorno d’oggi i moderni trapani  elettrici o addirittura gli avvitatori portatili a batteria assolvano rapidamente questo compito.

Il principio della rotazione del girabacchino, cioè l’asta piegata a U che forma un eccentrico, viene applicato anche per manovrare il cric. In questo caso il terminale, al posto della filettatura che regge il mandrino, ha una piegatura a gancio
Anche il bastone che solleva il tendone da sole a rullo o di certe serrande avvolgibili usa lo stesso sistema.

Il termine girabacchino (detto in varie Regioni girabecchino o girabarchino) deriva dal francese vilebrequin,= albero a gomiti (dal vocabolario Treccani).

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Zìnne

Zìnne s.m. = Cenno, segno, ammicco

Probabilmente deriva dal lat. tardo cĭnnus = «ammicco, l’ammiccare», oppur dal latino classico signum = «segno»

Gesto che si fa strizzando un occhio, quale segno di complicità, per lo più di soppiatto, in segno di intesa, di complicità con qualcuno.

Talvolta viene usato parlando agli astanti, strizzando l’occhio verso un “compare”, come per significare, ad esempio: «Attento: tu conosci quello che sto per dire adesso, ma fingi di non saperlo!»

La locuzione verbale fé ‘u zìnne o mené ‘u zìnne raduce il verbo intransitivo zinnjé = ammiccare.

Anticamente era una forma di approccio a distanza verso le donzelle, che il più delle volte, si giravano a capannello ridacchiando: «Ma che vé truanne ‘stu bbabbjöne?» = Ma che vuole costui?

Se lo fa una donna verso di un maschietto, vuol dire che costui è un uomo fortunato.

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