Categoria: S

Stómbe

Stómbe s.m. = Moncherino

La parte superstite di un arto (superiore o inferiore) che ha subito un’amputazione.

Il termine deriva dall’antica voce longobarda Stumpf  (usato anche nella lingua tedesca contemporanea) che significa proprio moncherino, ma anche tronco, ceppo.  Insomma qualcosa di troncato, tagliato, mozzato.

Non voglio dilungarmi perché ritengo che sia indelicato scherzare su questo argomento.
Penso a quelle persone che hanno subito un incidente tanto grave da causare un’amputazione,  non ho voglia di usare il mio solito tono canzonatorio.

Dal punto di vista linguistico devo però dire che in dialetto una persona priva della mano viene detta che ha il moncherino, come se avesse ricevuto un regalo: Töne ‘u stómbe, o töne ‘un stumbarjille.

Secondo me si dovrebbe dire Jì rumàste p’u stómbe = È rimasto con il moncherino.  Ma nel parlato non si bada a tante sottigliezze.

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Stóppele

Stóppele s.m. = Groviglio, straccio

Garbuglio di stracci, o spago, o erbacce, o qls malloppo che forma ostacolo al defluire di liquidi.

Jìnd’u canéle sté ‘nu stóppele ca fé jì l’acque pe söpe = Nella grondaia si è formato un groppo che fa tracimare l’acqua piovana.

Presumo che derivi da “intoppo” o da “stoppa”.

Scherzosamente chiamasi stóppele una voluminosa forchettata di spaghetti.

Aùppete che stóppele = Ahum! Che tampone!

Diminutivo: stuppelìcchje o stuppjille.

Si definisce così, ad esempio, uno straccetto legato in cima ad una stecca e usato per lavare il fondo di una damigiana.
O anche un cencio arrotolato per turare temporaneamente una falla.
Oppure un lembo di tela inzuppato di olio da cucina, adoperato come esca per accendere i carboni del braciere o per ungere il fondo della padella.

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Stöve ‘na volte….

Stöve ´na volte loc.id. = C´era una volta…

Era il classico incipit delle favole che le nonne raccontavano ai nipotini, seduti intorno al braciere, nelle lunghe sere d´inverno, allorquando non esisteva la Televisione.

Talvolta la vecchina si burlava dei bimbi ansiosi di conoscere la fine della favola, lasciata volutamente in sospeso! E spesso il protagonista era un somaro.
Stöve ‘na volte.
tanna-tànne
quanne ‘u ciócce
stöve cacanne!..


Oppure, più simpaticamente:

Stöve ‘na volte,
‘nu ciócce de Monte
statte cìtte
ca mò te l’acconte.
Stöve ‘na volte

‘nu ciócce de Vüche
statte ctte

ca mò te lu düche..
Stöve ‘na volte
‘nu ciócce de Barlètte,
statte cìtte,

ca mò te l’azzècche!

A questo punto, su azzècche la nonnina, un po’ a sorpresa, un po’ perché era la prassi, azzeccava un buffetto sulla guanciotta di uno dei nipotini che pendevano dalle sue labbra.

Il bello è che la storia non aveva un seguito, con rammarico dell’uditorio dei marmocchi.



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Stracórse

Stracórse s.m. = Discorso, eloquio, esposizione

Invariabile al singolare e al plurale.

Tutta la successione di parole attraverso le quali si estrinseca il proprio pensiero ad almeno un astante.

Significa anche l’argomento stesso di cui si parla, o il significato recondito, o il succo di una lunga esposizione.

Giuànne ò fatte ‘nu sòrte de stracórse, e nen sàcce addj’ì ca vulöve arrevé = Giovanni ha fatto un lungo eloquio, e non so dove voleva arrivare (andare a parare).

Tó nen te ne venènne pe ‘sti stracórse = Tu non venirtene con questi discorsi (tanto non ti credo…)

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Stracquatöre

Stracquatöre agg. e s.m. = Tregua

Termine tipico della marineria locale.

Indica, nella stagione invernale, l’apparire di una sola giornata di sereno dopo una serie di giornate di maltempo.

Come per dire che la cattiva stagione si fosse stancata (stracquéte) di imperversare ed ha voluto regalato una giornata di tregua prima di riprendere le avversità.

Approfittando delle condizioni meteorologiche favorevoli i pescatori cercavano di ‘rubare’ una giornata i lavoro con una rapida battuta di pesca.
Jògge jì stracquatöre, abbjàmece!” = Oggi è (il tempo ci dà una giornata di) tregua, avviamoci!

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Strafuché

Strafuché v.t. = Strangolare, divorare

1) Strafuché = strangolare, strozzare, soffocare, stringere al collo rendendo difficile il respiro.

Sta cammüse ne sté stafucanne! = (Il colletto di questa) camicia di sta strangolando.

2) Strafuché = divorare, ingurgitare, inghiottire avidamente o rapidamente (in senso spregiativo).

Bèlle-belle! U vüte ca te sté strafucanne? = Adagio! Lo vedi che ti stai ingozzando?

Avöve fatte cìnghe pìzze e ce l’ànne strafuchéte tutt’e cìnghe! = Avevo preparato cinque pizze e se le sono ingollate tutte e cinque!

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Strafùche

Strafùche s.m. = Cibo, nutrimento.

Ciò che si mangia, che serve all’alimentazione umana, inteso un po’ spregiativamente.

In effetti chi si ingozza avidamente non dà uno spettacolo edificante.

Tó pjinze sèmbe au strafùche = Tu pensi sempre al cibo, al mangiare.

 

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Strafüle

Strafüle s.m. = Spago, filo grosso

Grosso filo usato dai calzolai, sellai, materassai. Qualunque spago o legaccio in genere.

Quello che io ricordo era avvolto in un grosso gomitolo ed era posto in un alloggiamento della mietitrice meccanica: veniva adoperato dalla macchina agricola per allacciare i covoni automaticamente, per mezzo di un ingegnoso sistema, che tagliava il legaccio dopo averlo annodato attorno al fascio di spighe (‘a grègne).

Forse deriva da extra filo.

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Strainüne

Strainüne loc.id. = strisciante

Tipico il detto: Rengràzzjie alla Madonne! Ha’ da jì a Sepònde p’a lengua strainüne! = Hai passato un grave pericolo, l’hai scampata per miracolo! Ringrazia la Madonna!

Ora la locuzione jì p’a lengua strainüne (andare con la lingua strisciante) è solo figurativa, perché richiama una severa usanza secolare che nessuno attua più.

Era un comportamento penitenziale risalente al medio evo. I grandi peccatori, in segno di pentimento,  entravano in Chiesa in ginocchio, e avanzavano trascinando la lingua sul pavimento dall’ingresso fino ai piedi dell’Altare maggiore.  Spesso per l’attrito la lingua sanguinava, ma il fatto era sopportato per devozione e penitenza.

Invece è usato tuttora  jì alla scàveze a Seponde = andare scalzi alla Basilica di S. Maria Maggiore di Siponto. Lo si fa in segno di ringraziamento per scampato pericolo, ma anche per semplice devozione. Anche questa è una pratica risalente al Medio Evo.

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Stranghegghjöne

Stranghegghjöne s.m. = Reticenza, malumore, cruccio.

Ostinato mutismo in cui si rifugia colui che non è d’accordo con gli altri, non partecipa al buonumore degli amici, sta sulle sue, come se avesse “l’uve ‘ncröce” = l’uovo di traverso…

Ahò, e chè, tine ‘u stranghigghjöne, ca sté sembe cìtte? = Ehi, che hai il boccone di traverso che ti fa star sempre zitto?

Cum’jì ca sté citte citte ? Che tine ‘u stranghigghiöne ?” = Com’è che stai zitto zitto? Che hai l’uovo di traverso?

L’etimo che mi sembra più plausibile potrebbe essere “strangolamento”, che è la sensazione avvertita dal malcapitato quando gli viene un colpo apoplettico, e/o un infarto, che gli mozza il fiato e non gli consente di parlare.

Per taluni ha a che fare con una strozzatura del testicolo (questo spiega la desinenza del termine) dovuta ad un’ernia inguinale. Tali patologie, in uno stato avanzato, possono provocare dolore quando si tossisce, o addirittura quando si parla.

Per tale motivo il termine è spesso associato a qualcuno che tace e non dice nulla perché ha dei seri problemi di salute (o anche di altra natura).

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