Categoria: Proverbi e Detti

Càzze, paracazze, cucuzzjille e jöve

Càzze, paracazze, cucuzzjille e jöve

Cazzo, accessori, zucchine e uova.

È la risposta, un po’ volgare, a chi chiede, forse inopportunamente:

– Che avüte mangéte jògge? = Cosa avete mangiato oggi per pranzo?

– Càzze, paracazze, cucuzzjille e jöve!

Certamente l’interpellato è un tipo riservato, attento alla sua privacy.

Notate la disposizione degli zucchini e delle uova: la descrizione materializzata dei primi due termini! Tanto per non lasciare dubbi. Fatti i fatti tuoi!

In questo caso invece di cucuzzèlle normalmente usato al femminile, è adoperato il termine cucuzzjille, ovviamente e doppiamente al maschile.

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Ce chiüde ‘na porte e ce jépre ‘nu purtöne

Ce chiüde ‘na porte e ce jépre ‘nu purtöne

Si chiude una porta e si apre un portone.

Incoraggiamento, invito a non rassegnarsi.

Se qlcu si abbatte per la malasorte o un rovescio di fortuna, questo detto gli ricorda che non tutti i mali vengono per nuocere, e che il momento sfavorevole attuale può rivelarsi provvidenziale per insperato successo.

Come spesso accade, anche questo Detto si rivela premonitore.

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Ce sò ‘rebbelléte ‘i jammarjille jind’u panére

Ce sò ‘rebbelléte ‘i jammarjille jind’u panére

Si sono agitati i gamberetti dentro il paniere.

Il verbo si può pronunciare anche arrebbelléte o rrebbelléte, con un rinforzo sulla “r” iniziale.

Si cita questo detto quando dei marmocchi fanno un lungo e gioiosissimo chiasso, incuranti dell’esortazione degli adulti a stare buoi.

Avete mai provato ad ascoltare una classe di bambini della scuola materna? Povere maestre!

Che ci fanno i gamberetti nel paniere? Precisiamo che si tratta di quei gamberi minuscoli catturati sulla scogliera e destinati a diventare esca, infilzati all’amo dei pescatori dìlettanti.
Ma mano che si raccolgono dal retino, vengono posti in un cesto di giunchi provvisto di coperchio.

Ovviamente quando il numero diventa consistente, ogni volta che si leva il coperchio per introdurne altri, si intravede un verminaio di movimento all’interno. Si mantengono vivi e tentano tutti insieme di risalire le pareti del panierino. Ecco il gran movimento, ma silenzioso, dei gamberi esagitati..

Questo detto somiglia alla locuzione arebbelléje ‘u jaddenére

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Ce truéme ammjizze ‘u balle? E àmm’abballé

Ce truéme ammjizze ‘u balle? E àmm’abballé.

Ci troviamo in mezzo al ballo e balliamo.

C’è anche un’altra versione, lievemente diversa, ma del medesimo significato: Ce süme mìsse ammjizze ‘u balle, e abballéme!= Ci siamo inseriti in mezzo al ballo? E (perciò) dobbiamo ballare!

Questo Detto ricalca un po’ quello italiano che dice: “Hai voluto la bicicletta? E pedala!”

Molte volte ci si trova in un gorgo di traffico automobilistico. Ci tocca pazientare e…seguire la corrente.

Oppure quando capita di trovarsi nella calca, tra la folla, e non si può svicolare, anche volendolo.

Ringrazio il lettore Giuseppe Carpano di Cesena. Pinócce è nativo di Manfredonia – per il suo simpatico suggerimento.

Il Detto cala bene anche in senso metaforico. Ad esempio se, durante un lavoro edile di manutenzione conservativa, si scopre in corso d’opera un danno che comporta una spesa maggiore di quella preventivata, allora bisogna provvedere ugualmente al ripristino. Giacché siamo in ballo…

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Ce vole cchiù timbe…

Ce vole cchiù timbe pe spugghjé na fèmmene ca pe scatenàrece ‘nu maletimbe a mmére prov.

Il significato è molto chiaro. Un fortunale (o una burrasca in mare) impiega pochissimo a scatenarsi, arriva all’improvviso.

Per spogliare una donna, con tutto quella che indossavano all’epoca (cappellino, guanti, sciarpa, mantellina, veste, sottogonna, corpetto, giarrettiere, calze, guepière, busto, ecc.) occorre un tempo abbastanza lungo. Ma un fortunale si manifesta rapidamente!

Quindi, uomini di mare, prudenza sempre!

Ringrazio il dr. Matteo Rinaldi per avermi imbeccato con questo antico proverbio, tuttora usato nella marineria locale.

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Ch’jì ca denére alla fjire nen pòrte, passe pe passe ce vöte la mòrte.

Ch’jì ca denére alla fjire nen pòrte, passe pe passe ce vöte la mòrte.

Colui il quale, recandosi in fiera, non porta con sé abbastanza denaro, man mano che procede fra gli espositori, sente un fortissimo senso di rammarico, quasi di rabbia.

In questo caso “vedersi la morte” significa, sentirsi morire, rammaricarsi di non poter fare acquisti convenienti o di non aver la possibilità di concludere affari vantaggiosi tra le numerose proposte presenti in fiera.

Un’altra corrente di pensiero riferisce (grazie a Enzo Renato): Chi alla fjire denére nen pòrte, passe pe passe tröve la morte.

Il concetto, egregiamente espresso in un distico a endecasillabo, è lo stesso.

Insomma, che vai a fare alla fiera se non porti denari con te? Almeno il bancomat….

Morale: bisogna essere premuniti per ogni evenienza o imprevisto.

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Ch’jì mósce a mangé, jì mósce a fatjé

Ch’jì mósce a mangé, jì mósce a fatjé

Chi è lento a mangiare, è lento a lavorare.

Questo proverbio, quando il lavoro manuale era davvero una “fatica”, voleva mettere in guardia il datore nello scegliere i dipendenti.

Difatti le persone pospiano, lente, impacciate, avrebbero ostacolato il regolare svolgimento dell’attività lavorativa rallentando il ritmo di produzione della squadra intera.

Esiste la variante: Ch’jì mósce a manjé, jì mósce fatjé, dove al posto di mangé = mangiare, qlcu pone manjé = maneggiare.

Mòsce
 con l’accento grave è al femminile; mósce con l’accento acuto, quindi con pronuncia stretta della ó, è maschile e significa mogio, lento.

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Che chjùve agghje mìsse alla cröce?

Che chjùve agghje mìsse alla cröce?

Quale chiodo ho messo alla croce?

È un’imprecazione contro la mala sorte, come per dire: quale nefandezza ho commesso per meritarmi queste tribolazioni?

Anticamente si riteneva che ogni contarietà era una ritorsione di Dio contro i peccatori, ignorando che Dio non è vendicativo ma amoroso infinitamente di più di una mamma.

Quindi – dice il meschino – siccome io non ho messo alcun chiodo per crocifiggere Gesù, non merito questa sventura. Quale chiodo ho messo alla croce? Nessuno!

Anche Tosca, l’eroina Pucciniana, cantava di aver vissuto d’arte e d’amore, di non aver fatto male ad anima viva, e poi chiede rivolta al Signore: “..perché me ne rimuneri così?”

Sarebbe una bestemmia, ma Dio perdona l’espressione blasfema, umanamente comprensibile.

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Chéne e fìgghje de putténe nen chiódene méje ‘i pòrte

È un Detto, un po’ crudo e lapidario, per stigmatizzare colore che entrano in un locale, un magazzino, un’abitazione e lasciano aperto l’uscio. “La portaaaaa!”

Sarà distrazione? Cattiva abitudine? Maleducaziome?

Il Detto vale anche per coloro che escono senza chiudere la porta alle loro spalle.

Mio padre – che non si sarebbe mai permesso di apostrofarmi con una parolaccia – quando capitava a me di entrare in casa senza chiudere la porta, mi faceva una domanda: “E che? Tjine la cöte?” = E che? Hai la coda?

Questo non per paragonarmi a un cane: non sia mai! Non era nella sua indole.

Voleva scherzosamente evidenziarmi che, se lasciavo aperta la porta, lo facevo perché dopo essere entrato io, doveva forse fare l’ingresso anche la mia…coda? La “coda” poteva essere anche una o più persona al mio seguito. In italiano “codazzo”. L’ultimo chiuda la porta!

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Chése-a-vendòtte

Chése-a-vendòtte

Tradotto alla lettera: casa al numero civico 28.

Il detto definisce il luogo dove evidentemente c’era possibilità di mangiare a ufo. Difatti si diceva anche tàvele-a-vendòtte.

E quìste vènene sèmbe a chese-a-vendòtte…= E quenti vengono sempre a casa mia a mangiare a sbafo.

Quando non tutti avevano da mangiare c’era chi – con la scusa di fare una visita di cortesia – si presentava a casa di amici proprio all’ora di cena, magari in compagnia della moglie. Il padrone di casa si sentiva un po’ “costretto” a invitarli a restare per la cena.

Il malcapitato padrone di casa evidentemente abitava a numero 28, e il suo detto è rimasto nella memoria collettiva (chése-a-vendòtte oppure tàvele-a-vendòtte).

Quando il desco era vuoto, malinconicamente si diceva: Add’jì ca jéme jògge, a chése-a-vendòtte? = Non abbiamo nulla da mangiare, dove andiamo a rimediare qualcosa da mettere sotto i denti?

Fortunatamente questi tempi grami sono ormai passati per sempre (o no?).

Il lettore Lino Brunetti mi scrive:
«Io veramente ho sempre pensato che, dopo aver riscosso lo stipendio il 27 del mese, c’era chi, fortunato, godeva anche il 28 a casa dei suoceri o dei genitori.   Questa del numero civico, non l’ho mai sentito prima. Ma posso anche sbagliarmi!
Un amico mi ha riferito un’altra sua spiegazione.
Quando a fine mese le risorse finanziarie della casa sono esaurite, la famiglia cerca altri posti dove poter mettere qualcosa nello stomaco.
E questo succede verso il 28 del mese.
Un po’ come l’attuale discorso della “quarta settimana” in cui la paga, lo stipendio o la pensione si esaurisce e si va a “casa a vendotte”»

Per notizia vi riporto una espressione simile, rintracciata in rete. Si tratta di un detto napoletano dell’800. Vediamo se può calzare…

«’A taverna d’ ‘o trentuno. Letteralmente: la taverna del trentuno.
Così, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle più disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo.  A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte»

Insomma: questa casa non è un albergo!  Potrebbe essere questa la spiegazione più plausibile della nostra proverbiale “casa a 28”.

Sempre navigando in rete ho scoperto che anche a Roma, in Piazza Rusticucci nei pressi di San Pietro, esisteva un secolo fa una “Taverna del trentuno”, dove si poteva trovare da mangiare in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Il famoso cantastorie Sor Capanna ci canticchiava questa strofa:
E gira e fai la rota
la rota del Trentuno.
Abbasso preti e frati,
Viva Giordano Bruno!»

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