Categoria: Proverbi e Detti

Döpe l’Epìste, Déo grazziàsse

Döpe l’Epìste, Déo grazziàsse

Dopo l’Epistola: Déo Gràtias.

Si cita questo detto allorquando un soccorso, un suggerimento, un conforto e qualsiasi altro sostegno richiesto, arriva fuori tempo massimo. Ossia quando si è già conclusa l’emergenza.

L’origine è derivata dal fatto che durante il rito della la Messa celebrata in latino fin al 1965 (con il Concilio Vaticano II si è imposta la lingua locale), terminata la lettura dell’Epistola (per esempio di San Paolo agli Efesini, ai Corinti, ecc.) il popolo all’invito del Sacerdote (Vèrbum Dòminum! = Parola del Signore, rispondeva Déo gràtias = Rendiamo grazie a Dio).

In dialetto non si andava troppo per il sottile sulla pronuncia del latino, tanto non lo sapeva quasi nessuno. Quindi gràtias andava detto benissimo grazziàsse. Ricordo che il verbo suscìpiat = (Il Signore) accetti (questo sacrificio…), era pronunciato susci-i-piàtte e intesa come un ordine per soffiare sui piatti!

Quindi DOPO aver terminato qualunque azione quasi automaticamente si pronunciava la formula DEO GRATIAS = finalmente!

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Fa böne a pùrche…

Fa böne a pùrche…

Fa pure del bene ai porci, ma non aspettarti alcuna riconoscenza!

Alla lettera va tradotta solo la prima parte del proverbio.

Questo Detto si lancia come un grido di sconforto, allorquando si constata l’assoluta mancanza di gratitudine da parte di chi è stato beneficiato dal proprio intervento.

Ehilà, come mi è uscita bene questa frase! (Ehm….scusate la mia botta di autostima 🙂 )

L’ingratitudine è una caratteristica del genere umano molto diffusa ad ogni latitudine, ostentata specialmente da chi non avrebbe meritata alcuna attenzione

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Fa böne e scùrde, fa méle e pjinze

Fa böne e scùrde, fa méle e pjinze

Alla lettera: fai bene e dimentica, fai male e pensa.

In italiano più corretto direi: Se fai del bene, dimenticalo, ma se fai del male pensaci, rammentalo perché ci devi porre rimedio al più presto.

Una regola di coscienza, di moralità, inculcata dai genitori ai propri figli fin dalla tenera età. Un valore che li forgiava per tutta la vita.

Oggi purtroppo pare che non esistano più i valori di sempre, viviamo in un mondo di puro egoismo, pronti a calpestare chicchessia per il proprio tornaconto. La coscienza? Che cos’è questa sconosciuta?

Se fai del bene non aspettarti gratitudine, ma se fai del male riflettici, ossia mostra pentimento e trova il rimedio.

Smetto di fare il moralista, altrimenti vengo preso per un bacchettone, o semplicemente frainteso. Io ora mi occupo del dialetto.

Mi vengono a mente i versi di una canzone napoletana degli anni ’20, intitolata “Canzone appassiunata”:

…nce sta ‘nu ditte ca me dà raggione:
“fa bene e scorda, e si faje male, penza!”.
Pienzece buono, sì: te voglio bene,
te voglio bene e tu mme faje murì!

‘nza-nzà!

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Fàcce a vjinde e cüle a tramundéne

Fàcce a vjinde e cüle a tramundéne

Faccia a vento e culo alla tramontana.

Posizione certamente non comoda.

Il detto evidenzia la situazione di precarietà e di difficoltà economica in cui qlcu si dibatte.

In pratica significa che costui è esposto a tutte le intemperie, in senso figurato: i guai gli piovono addosso da tutte le direzioni.

Auguri amico!

Può essere anche una risposta evasiva, allorquando non si vogliono raccontare le proprie peripezie:
– Uhé Giuànne, accüme stéje?
– Accüme jà sté? Facce a vjinde e cüle a tramundéne!
 = Ehi, Giovanni, come stai? E come debbo stare? Il solito andazzo….

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Facjüme accüme facèvene l’andüche: mangiàvene ‘i scòrze e jettàvene i füche

Facjüme accüme facèvene l’andüche: mangiàvene ‘i scòrze e jettàvene i füche

Facciamo come facevano gli antichi: mangiavano le scorze e gettavano i fichi.

È l’immancabile risposta non-sense, dettata dalla facile rima, quando qlcu chiedeva: accüme amma fé? = come dobbiamo fare?

Ossia quando qlcu non sa trovare una soluzione a un suo suo problema e la chiede ad uno dei suoi interlocutori.

Si dice anche per sdrammatizzare un po’ una situazione difficile.

Ho sentito dire anche che gli antichi mangiàvene ‘u scùrze e jettàvene ‘a meddüche = mangiavano la crosta e buttavano la mollica.

E anche: Ce javezàvene a vèste e ce grattàvene u veddüche!

Anche qui era solo questione di rima e non di dieta, quando non esistevano ancora né il problema del sovrappeso né i dietologi che imponessero l’uso limitato di carboidrati.

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Famme sté bùne a me e au marüte de megghjèreme.

Famme sté bùne a me e au marüte de megghjèreme.

Fammi star bene, a me e al marito di mia moglie.

Una simpatica “preghiera”, scherzosa, che si recita quando si sta per perdere la pazienza a causa di un interlocutore tedioso, querulo, insistente.

La filastrocca solleva dalla tensione e forse fa capire all’altro che è ora di smettere.

Questo detto ha un’infinità di varianti. Io stesso, ad esempio, da ragazzo auguravo buona salute a me, al figlio di Maste Vecjinze, e au nepöte de Cungètte ‘U Curàtele.

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Fatte i cazze tüje, e chi te lu fé fé…

Fatte i cazze tüje, e chi te lu fé fé…

Fatti i fatti tuoi, e chi te lo fa fare…(a immischiarti in quelli altrui?)

Badare agli affari propri è un atteggiamento egoistico, ma quanto meno riuspetta la privacy altrui.

A volte, simpaticamente, proprio per dimostrare di non voler interferire nela sfera del privato altrui, si premette a qualsiasi domanda questa specie di salvaguardia:

No pe sapì ‘i cazze tüve, ma pe regularme i müje, tó che fé?…= Non per sapere i fatti tuoi, ma per regolarmi di conseguenza, tu che fai?

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Fé ‘i cìcere a mulle

Fé ‘i cìcere a mulle

Fare i ceci in ammollo.

Frase un po strana. Il significato è: Scambiarsi effusioni tra fidanzati.

Sono le manifestazioni dell’amore nascente tra una coppia di ragazzi molto giovani: ossia parlare fitto-fitto, testa a testa, sguardi intensi, sorrisi, smancerie, coccole, bacetti rubati e finta reazione di lei, con finte manate sulla testa sulla testa di lui, ecc. ecc..

Ricordo che cìcere è il plurale di cècere = cece

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Fé ‘u bàlle annànze

Fé ‘u bàlle annànze

Fare un balletto davanti (a qlcu).

Il significato di questo modo di dire è lampante: sono apparenze, ipocrisie, modi melliflui per rabbonire qlcu, falsità belle e buone.

– Te se ‘ncundréte pe Giuànne? l’à salutéte?
– E che, lu facjöve ‘u balle annanze?

= – Ti sei incontrato con Giovanni (con cui non sei in ottimi rapporti)? Lo hai salutato?
– Ma che gli facevo una ipocrita e falsa riverenza?

Con valenza positiva invece si usa cucceljé = coccolare, rabbonire

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