Cüme e fòrze me pòtene freché, ma cüme e cervjille de mèrde ne me fröche nesciüne!
Sul piano della forza fisica mi possono sopraffare, ma su quello dell’ intelletto (cervello) di sterco non mi batte nessuno.
Non è vero! Se qualcuno è riuscito a coniare questo arguto detto, doveva avere un cervello molto fino, altroché!
Questa formidabile battuta suscita la risata, perché il lettore o colui che ascolta si aspetta un altro finale. È il meccanismo che fa scattare la risata nelle persone intelligenti.
Se poi uno non capisce la battuta, allora sì che ha il cervello di cacca.
Come l’abbiamo vista quest’anno, (speriamo che sarà ancora) meglio l’anno prossimo.
È l’augurio che il capo famiglia fa davanti alla tavola imbandita per le grandi occasioni (Natale, Pasqua, Fest’a Madònne, ecc.), prima di cominciare a mangiare. Non so se si usa ancora.
Ricordo con particolare tenerezza la “benedizione” di mio padre, con un ramoscello di ulivo usato come un aspersorio intinto nell’Acqua Santa.
Il gesto era solenne, l’acqua era sparsa prima sulle uova sode pasquali, poste in un piatto sul desco, simbolo della vita, e poi sulle teste dei figli e dei familiari riuniti per il pranzo di Pasqua.
Il papà lo compiva felice di avere attorno a sé tutta la famiglia riunita e recitava la formula, che non aveva nulla di religioso, ma ugualmente significativa, perché tatuccio , il figlio maggiore, o la mamma, completava l’augurio: tùtte quànde ‘nzjimbre! = tutti quanti insieme, come fosse un Amen!.
Io continuo la tradizione e spero che lo facciano anche i miei figli con le loro famiglie.
Se si alleano dei furbi, dediti alle malefatte, lo fanno per danneggiare gli sprovveduti.
Scherzosamente si dice quando si vedono due o più ragazzini parlottare fra di loro: qualche monelleria è nell’aria.
Da notare che in francese per dire “danno” oltre che préjudice, e détriment, si dice dommage e in inglese damage.
Lo stesso proverbio è diffuso nel mondo contadino di tutto il Sud Italia.
. A Cerignola, esiste una variante, che tuttavia non cambia il succo dell’Adagio:
«Quanne i vulpe se cunzìgliene, achioude ’u gaddenoire.» = Quando le volpi si consigliano, chiudi il pollaio.
Nota linguistica.
“Gallina” si dovrebbe tradurre con jaddüne, come avviene correttamente con jaddenére = pollaio.
I giovani di oggi, ritenendo troppo “rustica” la desinenza –dde (cavadde, cepodde, cappjidde per cavallo, cipolla, cappello) l’ hanno “ingentilita” con -lle (cavalle, cepolle, cappjille, ecc.).
A mio giudizio si tratta di dialetto alterato, difforme dall’originale. Questa mutazione avviene solo da noi. Infatti a Monte Sant’Angelo, Mattinata, in tutti i paesi garganici non c’è stata alcun cambiamento simile.
Insomma faccio fatica ad accettarlo, ma non posso ostacolare questa tendenza.
Il dialetto, come qualsiasi lingua viva, è soggetta a inevitabili mutazioni nel corso dei decenni.
Da ‘nnanze t’ allìsce ‘i püle e da dröte t’u mètte ‘ngüle.
Un Detto manfredoniano, tipico e – diciamo – un po’ colorito che descrive il comportamento ambiguo di qualche persona subdola, falsa, ipocrita, equivoca, infida (credo di aver esaurito tutti i sinonimi…).
Certamente è un parlare figurato. Attenzione “lisciare il pelo” anche in italiano significa lodare, adulare qualcuno per avere in cambio dei favori.
In questo caso però la seconda parte del Detto non è proprio simpatica.
Insomma “prenderlo in quel posto”, tranne poche eccezione, non è gradito da nessuno.
Dopo queste spiegazioni credo che non sia più necessario fare la traduzione letterale del Detto.
Aggiungo solo che “lisciare il pelo” si riferisce a cavalli o cani o gatti, nel senso di averne cura, accarezzare il loro pelame nel verso giusto.
Attenzione, con valore ironico, fé ‘n’allescéte de püle significa riempire di percosse qualcuno, picchiarlo pesantemente
Ringrazio Michele Murgo per il suggerimento appreso da sua madre in vena di sincerità. Complimenti!
L’amico Enzo Renato si è superato ricordandomi questo Detto manfredoniano.
In effetti dovrebbe significare “saltare di palo in frasca”, un modo di dire in lingua che riguarda alcuni soggetti un po’ sconclusionati.
Essi nell’esporre le loro argomentazioni, non procedono, diciamo così, in maniera logica ed organica. Iniziano un argomento, passano ad un altro, fanno dei lunghissimi ramificati incisi, e si dimenticano da dove sono partiti, insomma sono degli arruffoni.
L’esempio nostrano è molto più calzante, come per dire si passa dall’amor profano all’amor sacro.
E sono stato elegante nella descrizione di questa ‘deviazione’ comica e paradossale….In effetti i due elementi sono entrambi di una certa rilevanza.
Scusate il linguaggio…colorito: è colpa di Enzo Renato!
Da quanne jì murte ‘u criatüre nen ce chjaméme chjó cumbére
Da quando è morto il bambino non ci chiamiamo più “compari”
Una volta il padrino di battesimo, il compare, era ritenuto veramente una persona di famiglia. C’era rispetto per tutta la vita tra la sua famiglia e quella del figlioccio. Il legame perdurava anche nel caso di premorienza di uno qualsiasi dei componenti di entrambe le famiglie trattenute da questo legame.
In questo caso, il soggetto si presumeva come un “dimissionario” dalla carica di padrino a causa della scomparsa, solo metaforica, del figlioccio.
È un rimprovero bonario rivolto a qualche amico che per lungo tempo non si è fatto vivo, Come dire: “Beato chi si vede!”
Si rivolge questo Detto anche in modo sarcastico verso qlcn ha fatto finta di non averci riconosciuto in precedenza, quando si trovava in compagnia di persone ritenute più influenti o più importanti di noi.
Abbaste ca sté ‘nu palme darasse dau cüle müje = basta che stai un palmo distante dal culo mio. Insomma noli me tangere.
Figuratamente il Detto acquista un significato un po’ egoistico: Ognuno faccia quello gli pare, purché non tocchi i miei interessi. La cosa non mi riguarda. L’operato altrui può essere giusto o sbagliato, a patto che io vi non venga coinvolto.
De jùrne aggióste ‘u supréne e de nòtte affìtte ‘u sutténe
Di giorno restaura la casa posta al piano superiore e di notte loca quella di sotto.
Può sembrare che la ragazza sia molto attenta a sbrigare le faccende di casa sua, evidentemente posta su due livelli.
È una perifrasi-eufemistica che si usava per additare una puttana, allo scopo di non scandalizzare troppo le orecchie sensibili delle comari.
Chi jì quèdde? Jüne ca fé ‘ bèlla giovene, ca de jùrne aggióste ‘u supréne e de nòtte affìtte ‘u sutténe.
Aggiustare la parte superiore significa imbellettarsi e anche figuratamente tentare di salvare la faccia, le apparenze. Affittare la parte inferiore significa, alla lettera: concedere qualcosa in uso a qualcuno dietro pagamento.
Gli autorevoli studiosi Pasquale Caratù e Matteo Rinaldi nel loro grazioso volumetto “I proverbi manfredoniani” (Università degli Studi di Bari-Centro di Documentazione Storica di Manfredonia-Edizioni del Golfo-Manfredonia-1995) usando una formula breve, scrivono testualmente:
“Quann’a fèmene allìsce ‘u supréne, affìtt’u sutténe”
«Quando la donna si agghinda, esprime dei….desideri»