Tag: sostantivo femminile

Vianöve

Vianöve s.f. = Carreggiata stradale bitumata.

Alla lettera significa “via nuova”.

Hanne fàtte ‘u scòndre söpe a vianöve de Sepònde = C’è stato un incidente stradale (hanno fatto uno scontro) sulla strada di Siponto.

Agli inizi degli anni ’50 l’unica strada asfaltata era la S.S.89 Garganica che attraversava tutta Manfredonia. Poi vi erano quelle (poche) lastricate con pietra vulcanica: Corso Manfredi, Corso Roma, Via Maddalena e le loro traverse. Tutte le altre vie cittadine erano di terra battuta, irregolari, da cui affioravano sovente rocce calcaree bianche. Lascio immaginare a voi come diventavano queste con la pioggia…

Quindi la ‘via nuova’ cittadina era anche chiamata l’asfàlde = l’asfalto, dal nome della prima sostanza (roccia impregnata naturalmente di bitume) usata per rivestire il manto stradale (detto MacAdam cementato). Successivamente si è usato il catrame (instabile all’aumento termico) e ora il bitume, ricavati dalla distillazione del petrolio greggio.

Penso che il termine vianöve derivi dal fatto che per stendere la carreggiata, la strada dev’essere sbriciolata e rifatta di nuovo.

Filed under: VTagged with:

Vèvete

Vèvete s.f. = Bevuta

L’azione di bere per dissetarsi.

Tènghe ‘n’ arsüre, fàmme fé ‘na vèveta d’acque = Ho un’arsura! Fammi fare una bevuta d’acqua!

Ora si preferisce dire bevüte.

Ce süme fatte ‘na bevüte de vüne dòlece= Ci siamo fatti una bevuta di vino dolce.

Ma io sono un po’ tradizionalista e quoto per vèvete.

Filed under: VTagged with:

Vetrüne

Vetrüne s.f. = Porta a vetri

Da non confondere con la vetrina dei negozi, chiamata oggi allo stesso modo.

Principalmente indica l’infisso, di legno o di alluminio, che chiude l’uscio delle abitazioni a piano terra (‘u sutténe).

Il ‘sottano’ oltre alla porta a vetri aveva anche la porta di legno a due battenti che di notte rappresentava la seconda e più robusta barriera, chiusa dall’interno con il varröne

Filed under: VTagged with:

Vetréne

Vetréne s.f. = Morbillo

Malattia infettiva e contagiosa. Si manifesta, spec. nei bambini, con febbre elevata e chiazze rosse su tutto il viso e il corpo.

Purtroppo quale strascico del morbillo facilmente i neonati contraevano una esiziale bronchite. In assenza di antibiotici, non ancora inventati, le conseguenze erano disastrose e la mortalità infantile molto elevata.

Filed under: VTagged with:

Vèsce

Vèsce s.f. = Teredine

Con il nome di “Vèsce” (o vèscje) in marineria si indicano le Teredini (Teredo navalis), dette dai pescatori manfredoniani anche “mange-e-chéche” = mangia e caca, tutto un programma.
 
Dal nome di questa insaziabile creatura che attacca anche il legno delle imbarcazioni, per similitudine, si è passati a definire la voracità di certe persone ingorde.
 
Il legno attraversato dalle gallerie causate dalle Teredini dicesi “vescéte” [pronunciato con doppia “sc” (come pescéte)] perde qualsiasi consistenza e può essere frantumato come un biscotto con la pressione di una sola mano.
 
Leggo in rete:
«Le Teredini, uno degli organismi xilofagi (voraci mangiatori di legno) che vivono e proliferano nelle acque salmastre, rosicchiavano le palificate degli antichi porti che costituivano sostegno dei moli e delle bocche di porto. Stessa sorte toccava al fasciame delle imbarcazioni, traforate in breve tempo dai molluschi. Le teredini eleggono come loro habitat naturale i legni infissi o galleggianti in acque salmastre portuali, li erodono dall’interno nutrendosi della fibra legnosa formando una cannula calcarea interna al legno dove alloggiano. In poco tempo sono in grado di distruggere le caratteristiche dei maggiori legni conosciuti.»

Oh! Tjine ‘sta sorte de vèsce! = Ehi!, Hai questa insaziabile voracità!

Filed under: VTagged with:

Vesazze

Vesazze s.f. =Bisaccia

Sacche accoppiate di stoffa pesante o di cuoio, di identica capacità e opposte, che i viaggiatori si mettevano sulla spalla o sulla groppa della cavalcatura.

Usata anche dai frati questuanti (i mùnece cercatöre) per raccogliere vettovaglie per la loro comunità.

Filed under: VTagged with:

Verzèlle

Verzèlle s.f. = Vergella

Deriva da verga, al vezzeggiativo vergella = verzèlle.

In metallurgia si intende il semilavorato di ferro “dolce”, laminato a caldo, a sezione piatta o rotonda, usato per fabbricare ringhiere, staffe, stipiti ecc.

Ferro dolce significa che ha basso contenuto di carbonio, e perciò lavorabile anche a freddo. Il ferro duro è l’acciaio lavorabile dopo forgiatura. La ghisa non è forgiabile e si usa dopo averne ottenuto le forme per colatura dalla fusione.

Ho sentito mio padre fabbro che la chiamava verzellüne = vergellina. Evidentemente di dimensioni minori. Quella che ricordo io, ‘a verzèlle, era di larghezza di cm 5, e di spessore di cm 0,5 ed è tuttora usata per i corrimano delle balconate.

‘A verzellüne larga cm 2 e spessa cm 0,3 cm. è usata per le decorazioni arricciate del ferro battuto, ad es. come tante “C” affiancate e sovrapposte in una intelaiatura, quale finestra per separare due ambienti.

Filed under: VTagged with:

Versüre

Versüre s.f. = Versura

Unità di misura di superficie agraria, in uso nell’Italia meridionale fino al 1860, con valore diverso da luogo a luogo, il più diffuso è di 123,45 are, ossia di 1,2345 ettari, pari a 12345 mq.

Per trasformare la versura in ha (ettaro) dividere per 0,81004. Per il contrario, moltiplicare l’ettaro (ha) per 0,81004 e si ottiene la versura.

Sottomultiplo: il tomolo (1/4 di versura)

Con l’unificazione dell’Italia fu adottato in tutto il Regno il sistema metrico decimale, ma in agricoltura praticamente era adoperato solo negli Atti notarili di compravendita o di successione e nelle scritture del Catasto: i coltivatori ancora per un secolo hanno continuato a intendersi sulla base delle antiche misure.

Per indicare una persona dotata di intelligenza e cultura, si diceva che costui aveva quàtte versüre de cervjille = quasi cinque ettari di cervello. Come se il sapere e l’intelligenza si potessero misurare come un terreno seminativo.

Filed under: VTagged with:

Verdèsche

Verdèsche s.f. = Ghiozzo testagialla

Si tratta di un pesce di mare dalle dimensioni fino ad un max di 12 cm, della categoria pìsce de prote = pesci di “pietra” (di scoglio), della stessa famiglia dei “Gobiidei”, ossia dei “cuggioni”e dei “maccaroni“.
Questi pesci vivovno su fondali fino a 15 m. o fra le praterie della Posidonia oceanica.

Il nome dialettale si riferisce al loro colore vivace, giallastro tendente al verde.
Linneo, il grande botanico naturalista, gli attribuì il nome scientifico Gobius xanthocephalus che significa proprio “ghiozzo dalla gialla testa”.

Fra i pesci “di pietra” – ossia di scoglio – va annoverata anche la “landrosa” e la vavosa o bavosa.

Viene catturata con la lenza dai pescatori dilettanti. Difficile trovarla sulle bancarelle dei mercati. Carni squisite in umido.

Per curiosità in lingua italiana per verdesca si intende uno squaletto venduto a tranci e spacciato per pesce-spada, di cui è meno pregiato.

Filed under: VTagged with:

Vènghe

Vènghe s.f. = Campana

Questa campana non è quella che suona per invitare i fedeli alla Funzione religiosa…

È il gioco infantile che consiste nell’avanzare, saltellando su un piede solo uno schema disegnato per terra.

Nelle altre parti d’Italia è una specie di scacchiera. Quella giocata a Manfredonia era formata da cinque linee rette parallele, e da una linea ad arco tracciata come una lunetta. Negli spazi fra le due linee si scrivevano le cifre da 1 a 5, e nel semicerchio terminale il numero 6.

Per tracciare la vènghe sul marciapiede si usava un pezzetto di carbone della fornacella di mamma, ma andava bene anche un mozzicone di gessetto sottratto alla scuola.

Si lanciava un tacco di gomma – detto ‘u salva-tàcche o ‘u söpa-tacche – staccato da qualche vecchia scarpa destinata alla spazzatura, ma sarebbe andato bene anche un sasso piatto, nella “casa”, cominciando dalla casella più vicina al lanciatore (prima la n.1 poi la 2 la 3 ecc.).

Dopo aver raggiunto la meta n. 6, si faceva il percorso a ritroso (5, 4, 3, ecc.). Se l’oggetto lanciato si arrestava sulla linea divisoria, il gioco passava di mano all’altro contendente.

Chi percorreva tutto il tragitto senza commettere errori aveva diritto a “comprare la casa”, scegliendo la casella con il lancio del salva-tacco dietro le sue spalle.

La casa acquistata non poteva essere più toccata dall’antagonista, costretto letteralmente a scavalcarla , ma solo dal proprietario. Il problema sorgeva quando le case acquistate erano contigue.

Si giocava promiscuamente, maschietti e femminucce perché era un gioco tranquillo, durevole ed avvincente.

Juché alla vènghe = Giocare alla campana

Il gioco della campana è documentato fin dai tempi dell’antica Roma allorché era chiamato gioco del “claudus”, cioè dello zoppo. Uno schema di campana è tuttora presente sul lastricato del foro romano a Roma.

La vènghe indicava anche il tracciato circolare che delimitava l’area di gioco della trottola di legno, detta (clicca→) ‘u córle.

Filed under: VTagged with: