Tag: sostantivo femminile

Cuquìgghje 

Cuquìgghje s.f. = Calcinello, tellina, arsella

Nome derivato dal francese coquille (pronuncia simile a “cokiglie”) che significa conchigia..
Comunissima su tutti gli arenili d’Italia, la tellina o arsella  è un mollusco bivalve della famiglia Donacidæ (Donax trunculus). Vive nei fondali sabbiosi del Mediterraneo, Mar Nero, Oceano Atlantico.

L’esterno è biancastro e l’interno di un bel blu o violetto. Raggiunge una lunghezza massima di cm 3.

I gusci vuoti che troviamo sugli arenili presentano un forellino circolare e denotano che la tellina è stata vittima dei predatori (stelle di mare, polpi).

Ora viene raccolta (magari solo le valve vuote) per la curiosità dei bambini.
Le telline sono eduli, e se ne ricava un sughetto molto profumato, ma c’è poco da scialare….Non ci si può certo saziare!

Infatti, per la esiguità del “frutto” viene anche citato metaforicamente per mostrare una limitatezza di mezzi.

Ad es: Che so’ ca vé truanne da me, cuquìgghje? = Che cosa pretendi da me, conchiglie?   Come per dire non chiedermi quello che non posso darti. Sono in ristrettezza di mezzi.

Se qualcuno mostra di essere generoso offrendoci qualcosa di scarso pregio o valore, ottiene una lapidaria risposta che soppesa la sua rachitica prodigalità : “Cuquigghje” = Sì, quisquiglie (come direbbe Totò).

Una volta ricordo che le telline venivano raccolte (dai cuquigghjére o cucugghjére) e poste in vendita sull’uscio di casa a piatti, ricoperte di acqua marina per dar loro modo di spurgare eventuali granelli di sabbia.  Non che procurasse lauti guadagni, ma solo pochi spiccioli, comunque ben accetti.

Quando degli amici, giusto per passare il tempo, si riuniscono  e fanno discorsi vuoti, non impegnativi   (i ragazzi di adesso usano il verbo cazzeggiare)  auto-ironicamente definiscono l’incontro come l’adunéte d’i cuquigghjére = l’assemblea dei raccoglitori di conchiglie.
Cioè un insieme di chiacchiere vuote (come le conchiglie), senza profitto (come i venditori di telline) e senza utilità alcuna.

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Cuccuésce

Cuccuésce s.f. = Civetta

La Civetta (Athene noctua) è un uccello notturno, predatore, capo piuttosto grosso, becco adunco, grandi occhi frontali.

I superstiziosi sono certi che la sua presenza nei paraggi di una casa preannuncia la morte di un suo abitante.

Ho notato anche al cimitero qualche civetta scolpita su un paio di tombe ottocentesche. Forse era qualcosa di più di una superstizione.

Da piccolo ho assistito atterrito alla fine di una povero uccello, posatosi per sua sventura sul cancello di una masseria, sbrindellato da una fucilata del proprietario. I cani hanno fatto il resto.

Come aggettivo definisce una donna non di bell’aspetto.

In italiano invece, civetta designa una donna leggera, che ama farsi corteggiare attraendo ammiratori con atti per lo più leziosi e forzati. Questo rapace era adoperati dai cacciatori come richiamo per i passeracei, incantati irresistibilmente dal suo modo di muoversi e di ammiccare.

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Cucciarde 

Cucciarde s.f. = Allodola

Uccello di piccole dimensioni, con ha livrea grigio-bruna, becco acuto e lunga unghia posteriore, detta nel napoletano cucciarda terragnola cucciarda pugliese.

Altro nome dialettale: taragnöle 

Il nome è usato scherzosamente per descrivere o appellare qualche bambina dispettosa o imbronciata.

‘A vì, quella cucciarde! = La vedi quella dispettosa.

Il prof. Ciliberti mi specifica che a Monte S.Angelo, oltre al significato propriamente avicolo,  cucciarde (dal greco kokloux) indica la ragazza civettuola e anche pettegola.

Il nome terminante in -arde mi fa pensare a una probabile origine francese (come canard, billard, clochard, montagnard, ecc.)

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Cucchjére 

Cucchjére s.f. e s.m. = Cucchiaio

Nella forma maschile ‘u cucchjére significa semplicemente la posata da tavola costituita da una paletta concava ovale usata per raccogliere e portare alla bocca cibi liquidi o non compatti. Dim. cucchjiarüne = cucchiaino.

cucchiaio-di-legnoNella forma femminile ‘a cucchjére designa quella di legno usata per rimestare gli intingoli durante la cottura in pentola. Diminutivo: cucchjarèlle.

 

 

 

cazzuola

Indica altresì la cazzuola, arnese costituito da una lama di metallo di forma grossolanamente triangolare con un manico di legno, usato dai muratori per stendere la malta.

 

 

frattazzo‘A cucchjére amerechéne = La cazzuola americana altri non è che un frattazzo (in dialetto ‘u frajàsse) con piano di metallo, usato per stendere l’intonaco fino.

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Cucchjarèlle

Cucchjarèlle s.f. = Schiumarola

La schiumarola è un utensile metallico da cucina, costituito da una coppa o da un disco del diametro variabile fino a 26 cm, bucherellato, sulla quale è innestato con rivetti o anche saldato, un lungo manico dello stesso metallo.

È prodotta ora solo in acciaio inox. Io ricordo quella di alluminio ed era usata per lo più per togliere dall’acqua bollente i maccheroni cotti, in tre o quattro movimenti di affondo e riemersione, in modo che tutta quell’acqua rimasta nella pentola venisse riciclata per il lavaggio dei piatti.

La cucchjarèlle descrive altresì un cucchiaio di legno di fattura artigianale, lungo oltre 30 cm., usato dalle mamme in cucina per rimestare i cibi in cottura e… in casa per mazzolare i frugoletti che si comportavano da monellacci.

Anche quella della misura più piccola,per girare il sugo, dev’essere chiamata cucchjarèlle, allo stesso modo. Sarà il contenuto della frase che ci farà capire di quale tipo si sta parlando.

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Cubbüje

Cubbüje s.f. = Cubìa, occhi di cubìa.

In italiano si pronuncia, con l’accento sulla ‘i’ come in fobia. Altri dicono cùbia, come come in rabbia.

In dialetto lo usano solo gli uomini della marineria perché è un termine specifico dell’arte navale.

Si tratta di due rilievi decorativi poste sulla murata delle imbarcazioni a proravia, vicini ai due fori creati per consentire lo scorrere della catena quando si cala o quando si salpa l’ancora.

Essi tecnicamente sono e si chiamano “occhi apotropaici” (dal greco ἀποτρόπαιος apotròpaios, derivato di ἀποτρέπω che significa allontanare), cioè che allontanano gli influssi malefici.

Questi antichissimi fregi furono usati da Egizi, Romani, Fenici e Greci in tutto il bacino del Mediterraneo. Fino agli anni ’60 erano in uso sui natanti della costa Adriatica, dalla Puglia alla Romagna, sia sui battelli da pesca, sia su quelli da carico.
Le imbarcazioni moderne, ahimé, non si fregiano più di questi simboli del passato, ritenuti forse troppo “primitivi”.

I cubbüje…il termine ha un suono che mi piace.  Le  cubie a forma di occhi, in rilievo, colorati di rosso, e fissati sulla prua dei nostri trabaccoli, esercitavano su di me adolescente un’enorme attrazione. Dopo la Messa mi concedevo una passeggiata in esplorazione o all’interno del Castello o sul Molo di Levante. Restavo a lungo a mirare questi misteriose e affascinanti cubie.

Il lettore Mario Brunetti, che ringrazio, mi scrive:
«L’occhio di cubìa è un capolavoro di funzionamento: la catena dell’ancora deve scorrere nel giusto verso senza accavallare le maglie e viceversa in risalita. In pratica è lo sviluppo di un’elica. E’ una piccola medaglia per il carpentiere che la realizza.»

Nella foto (dal wb) un antico trabaccolo restaurato all’ancora nella laguna veneta.
Le cubìe sono diventate l’emblema della città adriatica di Cattolica.

 

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Crumatüne 

Crumatüne s.f. = Cromatina. Cera per lucidare le scarpe.

Va bene anche scritto crumatïne.

La denominazione commerciale “Cromatina” dal greco χρμα –ατος = colore) diventò un nome comune per indicare il lucido per scarpe, ed era largamente usato anche in italiano.
Ora si preferisce adoperare l’aggettivo sostantivato “lucido” per designare questo prodotto.
Fino agli anni ’70 era commercializzato in pasta piuttosto solida, contenuta in scatolette metalliche rotonde, con il coperchio rimovibile.  Ricordo le varie marche dell’epoca: le più diffuse Tana e  Marga; quindi Brill, Emulsio, Ebano, Lion noir, Guttalin e Sutter, nei vari colori: nero, testa di moro, marrone, rosso, giallo.
Si applicava sulle calzature mediante una specifica spazzola

Poi fu distribuito in forma cremosa in comodi in tubetti, come quelli del dentifricio.
Ora si vende in flaconcini dotati di un pratico tampone a spugna, sotto forma di liquido speciale autolucidante.

Da non confondere con cré-matüne = domani mattina

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Crjànze

Crjànze s.f. = Creanza

Correttezza di comportamento, rispetto, buona educazione, buone maniere.

Mala crjanze = atto di cattiva educazione, da villano screanzato.

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Cresòmmele

Cresòmmele s.f. = Albicocca

Frutto dell’albicocco (Prunus armeniaca), albero con foglie a cuore, fiori precoci bianchi o rosati, frutti saporosi di colore arancione. Il colore della buccia cambia a seconda delle varietà: si va dal giallo chiaro all’arancione intenso. Il frutto è carnoso, con seme osseo e forma ovoidale.

Il nome cresomme o cresòmmele è derivato dal greco “Chryso-milo” (χρυσό μήλο) ossia “oro-mela” = frutto d’oro.

Taluni per brevità, dicono cresòmme, ugualmente corretto. Sono più propenso a usare il termine cresòmmele, specie riferito al plurale.

‘Sta cresòmme jöve sciapüte = Quest’albicocca era insipida.

Mangiàteve ‘sti cresòmmele de Màcchje = Mangiate queste albicocche macchiaiole.

Esistono numerose varietà di albicocca. Da noi è molto conosciuta un’albicocca piccola,  detta nanàsse, ben colorita e molto zuccherina, i cui semi contenuti all’interno del nocciolo duro sono dolci come quelli le mandorle; sono invece amari i semi delle altre varietà di albicocche, quelle di dimensioni maggiori.

Questi noccioli, ‘i caccianózzele, erano oggetto di numerosi giochi fanciulleschi.

L’albicocco, originario della Cina, si diffuse fino all’Armenia, da dove venne introdotto in Occidente da Alessandro Magno. Tuttora una varietà è chiamata Albicocca Alessandrina.

In epoca borbonica nel Napoletano era una delle piante più diffuse. Un botanico napoletano del 1583 evidenziò le due varietà più pregiate, chiamandole “bericocche” e “crisomele”.
I due nomi sono entrati da quattro secoli nella parlata del Sud Italia. A Monte S.Angelo si chiama tuttora vernecòcche (da bericocche). Invece a Manfredonia, come nella Puglia Piana e in Campania,  cresòmmele (da crisòmele).

Il frutto matura a fine maggio-metà giugno, una stagione breve.

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Crépe

Crépe s.f. = Capra

È un animale ovino apprezzato per la delicatezza delle sue carni in giovine età (‘u crapètte il capretto) e l’ottima digeribilità del suo latte. La carne della capra adulta è più coriacea, ma indicata nella preparazione in umido, non arrosto.

Una volta si usava la sua pelle per farne guanti e otri per il vino e l’olio.

La capra (Capra hircus) riesce a nutrirsi anche si vegetali duri, spinosi, coriacei, e per questo allevato prevalentemente in zone montane di tutto il mondo.

Il maschio della capra, l’irco o il capro, in dialetto dicesi crapöne s.m. anche nel significato di testone, cocciuto e poco propenso all’apprendimento. Sì ‘nu crapöne.

Il nome dialettale subisce, come tanti altri, la metatesi, ossia lo spostamento di una consonante all’interno del nome. come accade anche per frabbecatöre, stròppje, frummàgge, premmanèndeecc.

Andate a leggervi il Detto: Salüte e frasche,

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