Tag: sostantivo femminile

Pezzarèlle

Pezzarèlle s.f. = Dolcetto

Dolcetto secco familiare, che si preparava per le grandi ricorrenze.

Un po’ come i Pavesini, era composto solo di farina, zucchero e uova. Dall’impasto piuttosto sodo si ricavavano a mano tante palline che si ponevano su una larghissima teglia unta per la cottura nel forno pubblico.

Le massaie più fantasiose ponevano i cima alla pallina un chicco di caffé abbrustolito. Durante la cottura la pallina si abbassava un po’ e il risultato finale era una mezza sfera, una cupoletta, con un puntino nero in cima.

Si offrivano le pezzarèlle assieme ad un il liquore fatto in casa (‘u resòlje = il rosolio).

Si può dire anche pizzarèlle, ma non ha niente a che vedere con le pizzette!

In epoca più moderna era chiamata ‘a pastarèlle, ma non mi piace (il termine, non il dolce).

Ora questo dolcetto genuino non si fa più in casa. Si compra quella pasticceria secca, già pronta, in scatole rotonde di latta, con provenienza olandese o da Paesi scandinavi.

foto di Gigi Lombardozzi

Filed under: PTagged with:

Petturüne

A) Petturüne s.n. = Pastelli, matite per colorare.
Il nome deriva dal verbo petté o appetté, pittare, colorare, dipingere.

Una delle cose più care dei miei ricordi della prima elementare: la scatola dei pastelli, sei colori, marca Fila, modello Giotto.  Solo sei colori, ed erano sufficienti per farci volare con la fantasia in un mondo in Technicolor!
Mi sovviene anche l´odore di questi pastelli, col legno grezzo, che dovevano durare tutto l´anno e magari anche l´anno successivo…

Una pubblicità ingenua, che ora fa tenerezza, stampata sulla scatoletta di cartone, declamava:
“Se nel disegno vuoi prendere otto
matite Fila e pastelli Giotto”

Conservavo i miei petturüne (….profumo di fanciullezza) dentro un’astuccio metallico riciclato dalle cianfrusaglie dei militari Alleati di stanza a Manfredonia.

B) petturüne s.f. = pettorina

Mia moglie mi ha ricordato che, al femminile, ´a petturüne era la parte superiore del grembiule (´u senéle).

C) ‘A petturüne s.f. solino.
Indicava anche il “solino”, cioè il colletto inamidato della camicia da uomo, separato dall’indumento, che si univa al resto con un bottoncino sul dietro e un altro sul davanti.
L´avremo visto mille volte nei film di Totò.

In italiano “solino” indica anche il tipico colletto azzurro bordato di bianco facente parte della divisa dei marinai di tutto il mondo (´i suldét´a marüne), ricadente sul di dietro in un rettangolo con le stellette.,.

Filed under: PTagged with: ,

Pettenessèlle

Pettenessèlle s.f. = Pettine

Pettine da taschino usato dai giovanotti eleganti di una volta, che volevano essere sempre impeccabili.

Era riposto un un foderino di cuoio e portato sempre nel taschino della giacca.

Se la loro capigliatura, nonostante fosse impomatata con la brillantina solida, veniva scompigliata dal vento, zac-zac, con due colpi di pettinino ritornava in ordine.

Per essere certi che nemmeno un capello fosse fuori posto, i gagarjille (←clicca) si specchiavano ai vetri delle abitazioni a piano terra prima di accedervi…

Filed under: PTagged with:

Pettenèsse

Pettenèsse s.f. = Pettine

Oggetto di vario materiale (osso, tartaruga, legno ecc.), usato per ravviare e acconciare i capelli, formato da una serie di denti fissati su una costola di circa 20 cm che serve da impugnatura.
Per metà i denti sono  più grossi e distanziati, per dipanare i capelli ricci o arruffati,  per l’altra metà più sottili per pettinarli senza strappi…

Si chiama così anche quello di dimensioni più piccole e di forma lievemente ricurva, munito di denti radi e lunghi per fissare i capelli nelle acconciature femminili, tuttora usati nei costumi tradizionali spagnoli.

In una canzone napoletana degli anni ’50, Renato Carosone ci ricordava che questa ragazza del rione Santa Lucia (‘A Luciana)  sfoggiava ‘a pettenessa per la via:
“Porta ancora ‘o scialle ‘e lusso,
porta ancora ‘a pettenessa.
‘sta Luciana quanno passa
nun te fa cchiù raggiunà…”

Infine con il nome di pettenèsse viene designato un pesce marino (Xyrichtys novacula), lungo fino a 20 cm, per la verità poco diffuso nel nostro Golfo, dalle carni bianche e gustose, sia in frittura sia in umido.
Per effetto della sua robusta dentatura è detto in italiano “pesce pettine”, in inglese  razorfish (pesce rasoio) e in Calabria pisci sùrice (pesce sorcio).

Filed under: PTagged with:

Pettenatöje

Pettenatöje s.f. = Mantellina

E’ uno scialle tipo quello che usano i parrucchieri, ma molto più rifinito e raffinato, spesso adornato con pizzo e ricamo.

Di solito viene regalato alle donne nel corredo prematrimoniale.

Una volta indossata arriva fino all’altezza del gopmito.

Serve a evitare che i capelli caduti durante la spazzolatura o la pettinatura o la messa in piega cadano sul vestito.

Filed under: PTagged with:

Pèttele

Pèttele s.f. = Pèttola, frittella

Il nome “pettola” è la versione italianizzata del sostantivo albanese petullat,  passato a noi dai numerosi centri arbëreshë del Sud Italia (Casalvecchio di Puglia, Chieuti, Barile, Ginestra, Maschito, Ururi, San Costantino Albanese, Frascineto, Carfizzi, Pallagorio, Piana degli Albanesi, ecc.)

Si tratta di una frittella di pasta morbida di pane, ben lievitata, cotta in abbondante olio d’oliva. Risulta croccante all’esterno e morbida all’interno.

Qualche massaia incorporava nella pasta, prima di friggerla, dei filetti di alici salate o di baccalà spugnato. Le mamme più abbienti addirittura vi ponevano dei chicchi di uva passa.   Ora sono vendute già pronte nei panifici,  ma solo nella versione base.

Se dopo qualche giorno, le rimanenti pettole si indurivano, bastava riscaldarle, avvicinandole in punta di forchetta, al fuoco del braciere per farle ammorbidire.

Proverbio: I pèttele ca nen ce màngene a Natéle, nen ce màngene ‘chió = Le pettole che non si mangiano a Natale non si mangiano più.    Ossia afferra l’attimo, il giorno (Carpe Diem in versione manfredoniana).

Talvolta viene usato il termine pèttele per designare la (clicca→) pechèsce

Filed under: PTagged with:

Petìscene

Petìscene s.f.= Empietìgine

Malattia della pelle, caratterizzata da sfaldamenti e chiazze.

Petìscene erano chiamate anche quelle chiazze che restavano sulla pelle quando era guarita la scabbia.

Per estensione si definiva “petìscene” anche l’attaccatura di due pagnotte di pane infornate affiancate.

Lievitavano per effetto del calore, si dilatavano e si “attaccavano”. Quando il fornaio a fine cottura le separava, le due panelle presentavano una crosta molto più sottile. Talora restava una crosticina staccata, ottima perché croccante.

Filed under: PTagged with:

Petècchje

Petècchje s.f. = Concia

Ho indicato ‘concia’ come traduzione. Avrei fatto meglio (forse) s designare  “tintura”. Altri intendono, per una simpatica sineddoche (una parte per il tutto)  il solo pentolone usato per tale procedura.

Si tratta di un’operazione che i pescatori facevano alle loro reti, all’epoca costituite da fibre di canapa o di cotone, cioè di materiali del tutto naturali, prima che fossero inventate le  immarcescibili (che bèlla paröle!) fibre artificiali, ossia il rayon e il nylon. Ora non si fa più.

Consisteva nella bollitura delle reti in acqua dolce con corteccia di pino. Il trattamento tannico serviva principalmente per renderle più resistenti  e anche di colore rossiccio scuro, in modo che fossero mimetizzate alla vista dei pesci.

L’operazione si svolgeva generalmente all’aperto, su un’area alla sinistra di Cala Diomede scendendo le scale del Pertüse ‘u Mòneche.

Durante la bollitura dal pentolone si sprigionava un profumo che si spandeva per tutta la marina. Ai terricoli sembrava puzza… ma alla gente di mare era familiare e gradito, come lo è il profumo naturale dell’olio fresco o del mosto.

Figuratevi che un mio caro amico, figlio di pescatori, usava solo un particolare tipo di tè perché gli ricordava l’aroma della petècchje!

Ringrazio Gino Talamo per il suggerimento.

Filed under: PTagged with:

Pesciüne

Pesciüne s.f. = Cisterna

Sarebbe stato preferibile scrivere pešüne, perché si pronuncia allo stesso modo, ma non voglio fare il linguista cattedratico e pedante: va bene così com’è.

Contrariamente al significato dell’italiano “piscina”, cui assomiglia, il nostro termine non designa quella grande vasca che, riempita d’acqua, è usata per nuotare.

Nella nostra “Puglia sitibonda”, allanghéte, indicava un locale sotterraneo adibito ad accumulo di acqua piovana, che raccoglieva mediante un sistema di incanalatura, la pioggia che cadeva sui tetti delle abitazioni.

Dopo un breve periodo di decantazione, necessario al fine di far depositare sul fondo della cisterna le parti polverose, le cacche dei volatili, ecc. trascinate dalla pioggia, l’acqua veniva attinta col il secchio attraverso una porticina posta sulla parete esterna dell’edificio per uso potabile e domestico.

Ovviamente il tifo era endemico in tutta la popolazione, e falciava i soggetti più deboli che necessariamente usavano quell’acqua per dissetarsi.

Il fango depositato sul fondo periodicamente veniva tolto, un secchio alla volta, da una persona che vi scendeva con la vanga e un’altra che lo issava per buttarlo per strada, naturalmente. La cisterna alla fine veniva lavata e disinfettata con grassello di calce, in attesa delle piogge benefiche.

Filed under: PTagged with:

Pesciàcchje

Pesciàcchje s.f. = Urina

Accettabile anche la forma pisciacchje.

Sentite che cosa dice il prof. De Mauro: “prodotto finale dell’escrezione renale costituente la principale via di eliminazione dei rifiuti provenienti dal metabolismo endogeno, che si presenta normalmente come un liquido di colore giallognolo a reazione acida, che contiene elementi inorganici, come sodio, potassio, calcio, fosforo, ecc., e organici, come urea, ammoniaca, amminoacidi, ecc.”

Mamma mia! non immaginavo che con la minzione si potessero espellere tutte queste sostanze!

Adesso i bambini ben educati dicono: pipì…

Tandabbèlle tutte jìnd’a ‘na paröle: pesciacchje! = Tanto semplice esprimere tutto con una sola parola: pipì.

Le persone anziane usavano il termine pisciacchje per indicare l’ammoniaca in polvere per dolci, a causa del suo  odore penetrante che fortunatamente scompare con la cottura.

Pisciacchje era anche un soprannome in uso fino alla prima metà del secolo scorso, affibbiato ad un operaio che abitualmente mingeva dall’alto della tufara, senza mai accertarsi se al livello inferiore ci fossero altri colleghi intenti all’estrazione dei conci di tufo.

Filed under: PTagged with: