La figghja müte, ‘a mamme la ’ndènne
La figlia sordomuta, la madre la comprende.
Quando c’è feeling, ci si intende anche senza bisogno di parlare. In questo caso la mamma capisce le richieste della figliola sordomuta.
La figghja müte, ‘a mamme la ’ndènne
La figlia sordomuta, la madre la comprende.
Quando c’è feeling, ci si intende anche senza bisogno di parlare. In questo caso la mamma capisce le richieste della figliola sordomuta.
La féme jì chépe de ràgge
La fame è principio di ira.
Quando si giunge ad un certo punto di sopportazione, a causa del prolungato digiuno, non si capisce più niente, si comincia a “sbalié” = sragionare, o a dare in escandescenze
La fatüje vé annànze e jìsse scàppe addröte
Audio PlayerIl lavoro va avanti e lui corre dietro.
Si pronuncia questo Detto quando si parla di qualcuno poco propenso a lavorare.
Voglia di lavorare saltami addosso, e fammi lavorare meno che posso.
Da noi il lavoro, anche quello intellettuale è detto fatica. È in effetti stanca notevolmente sia quella muscolare, sia quella cerebrale.
Gli anziani recitano il Detto con una lieve variante sostituendo “dietro” con “appresso”:
La fatüje vé ‘nnànze e jìsse scàppe apprjisse.
La fatüje ce chiéme checòzze…
Detto completo: ‘A fatüje ce chiéme checòzze, a me nen me ‘ngòzze, a me nen me ‘ngòzze.
Il lavoro si chiama “zucca”, e non mi sollecita, non mi attrae, non mi stuzzica la voglia.
Poteva chiamarsi in mille altri modi, purché in rima con ‘ngozze.…
Un verbo un po’ strano. Altrove usano la locuzione “non mi azzecca”, o “non mi attira”, oppure “non mi invoglia “…
In italiano corrisponde un altro proverbio: «Voglia di lavorare, saltami addosso, e fammi lavorar meno che posso.»
E’ un ritornello rivolto verso qualcuno che non inizia mai un lavoro manuale che deve comunque eseguire. Guarda qua, osserva là, deve organizzarsi, meglio aspettare, ci vogliono gli attrezzi adatti, domani se ne parla, ci vuole un aiuto,….ecc.
La cöse a fòrze, nen véle ‘na scòrze
Un’azione (compiuta) per foza non vale (nemmeno) una buccia.
In italiano si direbbe che non vale un fico secco.
Aggiungo che nemmeno quelle fatte controvoglia riescono bene.
Insomma un po’ di passione in tutte le cose non fa pesare un lavoro, per quanto gravoso.
Per esempio io sto compilando questo vocabolario da tre anni ormai, e il lavoro non mi pesa minimamente, perché lo sto facendo con entusiasmo: e nessuno mi sta obbligando a farlo! Spero che esso valga più di un fico secco ?
Ringrazio Michele Murgo di avermi imbeccato questo Detto, pronunciato or ora da sua madre.
La chió sendènzja gròsse me pàsse pe’sòtte ‘a còsse.
La più grande maledizione (diretta a me) mi passa sotto la gamba.
La sendènzje, intesa come maledizione, era molto temuta, specie se lanciata nel corso di un furioso litigio.
C’era però qualche tipo spavaldo non temeva la maledizione, e la ‘schivava’ facendola passare sotto la gamba.
Ora queste cose ora fanno sorridere, ma una volta si temevano davvero.
La catàrre mméne ai cafüne
La chitarra in mani ai villani.
Non che i contadini non possano suonare questo strumento, per carità…
Si cita questo Detto quando si vuole evidenziare che non tutti meritano o mostrano di saper apprezzare un dono, un oggetto, un servizio che viene loro offerto.
Addjì ca süme jüte a fenèsce: a catarre mméne ai cafüne = Dove siamo andati a finire…La chitarra in mano ai cafoni.
Nota linguistica.
I giovani di oggi dicono ‘a chitarre, quasi come in italiano. Ma è un termine modificato perché essi hanno frequentato la scuola dell’obbligo e sono portati a italianizzare tutto il lessico… (dicono furchètte, al posto di furciüne. ‘u pomerìgge invece di ‘u jògge, preferiscono ‘u lucchètte all’antico catenàzze, e serratüre al genuino maškatüre, ecc.)
Io propendo per catarre e catarröne invece di chitàrre e controbbasse.
La carne mètte carne, u vüne mètte sanghe, è la fatüje fé jetté lu sanghe!
La carne mette carne, il vino mette sangue, è la fatica fa buttare il sangue!
Buttare il sangue significa morire.
Quindi, per lo scansafatiche lavorare duro è uguale a morire.
La carne döle all’ùsse
La carne duole all’osso.
Il significato del proverbio è chiaro. Solo a me che sono molto vicino al soggetto interessato può far male una maldicenza, una calunnia, una malignità ecc. e non a un estraneo, per quanto possa mostrarsi partecipe e rammaricato.
Ossia gli estranei non possono mai compenetrarsi nel dolore quanto possano farlo i familiari più stretti.
Così come il dolore è più lancinante se ad essere colpita è la parte del tessuto muscolare aderente l’ossatura.
Sì, a vüje ve despjéce…ma la carne döle all’ùsse! = Sì, vi dispiace…ma non potete mai provare il dolore che provo io (che sono parente).
La cannöle ce strüje e ‘a preggessjöne nen camüne.
Il cero si consuma ma la processione non avanza.
Stiamo perdendo tempo e denaro ma il lavoro non procede secondo i desideri.
Bisogna trovare un rimedio.