Chése-a-vendòtte
Tradotto alla lettera: casa al numero civico 28.
Il detto definisce il luogo dove evidentemente c’era possibilità di mangiare a ufo. Difatti si diceva anche tàvele-a-vendòtte.
E quìste vènene sèmbe a chese-a-vendòtte…= E quenti vengono sempre a casa mia a mangiare a sbafo.
Quando non tutti avevano da mangiare c’era chi – con la scusa di fare una visita di cortesia – si presentava a casa di amici proprio all’ora di cena, magari in compagnia della moglie. Il padrone di casa si sentiva un po’ “costretto” a invitarli a restare per la cena.
Il malcapitato padrone di casa evidentemente abitava a numero 28, e il suo detto è rimasto nella memoria collettiva (chése-a-vendòtte oppure tàvele-a-vendòtte).
Quando il desco era vuoto, malinconicamente si diceva: Add’jì ca jéme jògge, a chése-a-vendòtte? = Non abbiamo nulla da mangiare, dove andiamo a rimediare qualcosa da mettere sotto i denti?
Fortunatamente questi tempi grami sono ormai passati per sempre (o no?).
Il lettore Lino Brunetti mi scrive:
«Io veramente ho sempre pensato che, dopo aver riscosso lo stipendio il 27 del mese, c’era chi, fortunato, godeva anche il 28 a casa dei suoceri o dei genitori. Questa del numero civico, non l’ho mai sentito prima. Ma posso anche sbagliarmi!
Un amico mi ha riferito un’altra sua spiegazione.
Quando a fine mese le risorse finanziarie della casa sono esaurite, la famiglia cerca altri posti dove poter mettere qualcosa nello stomaco.
E questo succede verso il 28 del mese.
Un po’ come l’attuale discorso della “quarta settimana” in cui la paga, lo stipendio o la pensione si esaurisce e si va a “casa a vendotte”»
Per notizia vi riporto una espressione simile, rintracciata in rete. Si tratta di un detto napoletano dell’800. Vediamo se può calzare…
«’A taverna d’ ‘o trentuno. Letteralmente: la taverna del trentuno.
Così, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle più disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte»
Insomma: questa casa non è un albergo! Potrebbe essere questa la spiegazione più plausibile della nostra proverbiale “casa a 28”.
Sempre navigando in rete ho scoperto che anche a Roma, in Piazza Rusticucci nei pressi di San Pietro, esisteva un secolo fa una “Taverna del trentuno”, dove si poteva trovare da mangiare in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Il famoso cantastorie Sor Capanna ci canticchiava questa strofa:
“E gira e fai la rota
la rota del Trentuno.
Abbasso preti e frati,
Viva Giordano Bruno!»
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